Sopravvissuta a un gulag cinese

Sopravvissuta a un gulag cinese

Buongiorno, lettori! Oggi vi parlo di Sopravvissuta a un gulag cinese – la prima testimonianza di una donna uigura, di Gulbahar Haitiwaji con Rozenn Morgat (traduzione di Sara Prencipe) ed edito da Add Editore che ringrazio per la copia.


Per quasi tre anni Gulbahar Haitiwaji è stata privata della libertà e ha subìto violenza dalla polizia, centinaia di ore di interrogatori, fame, freddo, torture, sterilizzazione forzata e dodici ore al giorno di propaganda cinese, costretta in un drammatico programma di repressione e distruzione della minoranza musulmana degli uiguri. Nata nello Xinjiang, nella Cina occidentale, Haitiwaji viveva in Francia da dieci anni quando, una mattina del novembre 2016, è stata richiamata in Cina con il pretesto di chiudere alcune pratiche amministrative. Accusata di celare posizioni indipendentiste e attività terroristiche dietro il suo esilio in Francia, è sparita nelle viscere del terrificante sistema dei campi di concentramento ideati dal Partito comunista cinese per annientare il suo popolo. Più di un milione di uiguri sono stati deportati nei «campi di rieducazione» sulla base di infondate accuse di «terrorismo, infiltrazione e separatismo». Gli Xinjiang Papers, rivelati dal «New York Times» nel novembre 2019, denunciano e provano una repressione basata sulla detenzione di massa, la più devastante dall’era di Mao. Salvata grazie alle disperate trattative della figlia e all’ostinazione del ministero degli Affari esteri francese, Haitiwaji è la prima sopravvissuta ai campi cinesi a testimoniare. La pubblicazione di questo libro comporta un terribile rischio che lei e la sua famiglia hanno deciso di assumersi perché la sua voce essenziale raggiunga l’Occidente e ne scuota l’indifferenza.


E’ il 19 novembre del 2016 quando Gulbahar, nata il 24 dicembre del 1966 a Ghulja, riceve una strana telefonata dalla compagnia petrolifera per la quale ha lavorato nello Xinjiang, luogo che ha abbandonato assieme alle sue figlie su insistenza del marito, rifugiato politico in Francia. Tutto sommato, pur senza navigare nell’oro, lei a Karamay, nuova città petrolifera, ci è stata bene: ingegnere del petrolio, ha trovato lavoro lì, certo conducendo un’esistenza frugale ma non erano gli unici, come loro, tanti uiguri vivevano in una sorta di limbo che solo dopo tanti anni e tanta sofferenza riconoscerà come la premessa di una subdola e duratura azione del governo cinese per annientare la sua minoranza etnica. Un logorante lavaggio del cervello sfociato in una repressione drammatica che per tanto tempo si è perpetrata senza alcun eco mediatica. Ma ancora, in quegli anni, nonostante tutto, Gulbahar non si interessa di politica a differenza del marito e poi della figlia maggiore; ha partecipato, certo, da giovane studentessa a qualche protesta pacifica ma fondamentalmente se ne è sempre tenuta fuori e anche quando il marito la spingeva ad abbandonare il paese proprio per il clima più rigido e repressivo che si respirava, lei si è lasciata convincere, al punto che mentre Kerim chiedeva lo status di rifugiato, lei non ha chiesto il licenziamento ma solo un congedo non retribuito, fatto che ha aperto a quella telefonata che dà l’inizio a un incubo. Perché a Gulbahar viene chiesto di tornare in patria per firmare dei documenti e lei, pur rassicurata dal marito circa la sua attuale situazione di francese, sente che tutto sta per cambiare ma non immagina ancora come e quanto; inizia un calvario in parte conosciuto, “grazie” alla costante repressione cui gli uiguri sono abituati, interrogatori mascherati da the pomeridiani, avvilenti e interminabili. Ma ciò che qui l’attende è ben peggiore: con una scusa viene trattenuta per mesi, le viene mostrata la foto di sua figlia a una manifestazione organizzata dall’Associazione degli uiguri in Francia con in mano una bandierina azzurra del Turkestan occidentale. Ciò che per la figlia rappresenta aggregazione e un modo per mantenere vivi i rapporti con la sua gente, per la Cina rappresenta l’atto di una terrorista e l’inizio del calvario per sua madre, imprigionata prima e poi mandata in un campo di”rieducazione” , sottoposta a un costante lavaggio del cervello, una deprivazione sensoriale, di umanità, nell’agonia di giorni infiniti non scanditi dalle abitudini consuete, dalla luce del sole, ma da un freddo rituale fatto di lezioni aberranti e silenzi. Pian piano la memoria abbandona la nostra protagonista: è meglio ricordare o dimenticare? Coltivare un giardino segreto in cui nascondere e proteggere gli affetti, ciò che determina la propria personalità? Perché ciò che succede in questi gulag è la depersonalizzazione, è la perdita dell’identità a partire dalla svestizione, dalla divisa uguale, dal cibo-se così si può definire- tutto uguale che rinnega le scelte, il libero arbitrio, le diversità individuali. Un numero. Una matricola. Ricusare ciò che si conosce, ripetere una cantilena che inneggia al Partito, un Padre amorevole e benevolo che invece di eliminare la minaccia terrorista offre una possibilità di redenzione. Una bugia, immensa, che fa sentire sporca la lingua, i pensieri. Chi è Gulbahar? Se lo chiede, lei che sa di essere innocente, sa il gioco terribile che i suoi nemici attuano ma è sfinita. Sono passati anni. Ingarbugliata in una giustizia kafkiana, inglobata nelle viscere di questi casermoni nati all’uopo per annientare la sua etnia: tutte donne, cosa le iniettano? Cosa vogliono farle? Una tortura fisica e psicologica angosciante: anche quando le cose sembrano mettersi bene per lei, tutto è adombrato dalla paura, dalla sfiducia, dall’angoscia per chi sta fuori, la famiglia a cui mentire per proteggerli, ma lo capiranno? La perdoneranno? La riconosceranno? Sarà mai libera? Una sorte condivisa con le detenute come lei ma anche con gli aguzzini che nonostante tutto Gulbahar non riesce ad odiare, vittime anche loro di un totalitarismo che con il denaro si compra il posto a tavola con le grandi potenze, le quali in modo interessato decidono di affrontare il problema Cina o di volgere altrove lo sguardo. Un mondo di giganti che la voce di pochi cerca di scardinare.

Senza i nostri ricordi non siamo altro che detenute. Donne senza nome, senza storia. «Terroriste », «criminali », come dicono. Sì, senza i nostri ricordi siamo come morte.

Non so dire se sia stato più doloroso leggere della prigionia, della “rieducazione” o del periodo di “semilibertà” come lo definisce Gulbahar, quando tutto sembrava star tornando al proprio posto eppure serpeggiava l’ombra della polizia corrotta, delle domande da porre al marito e alle figlie, delle conversazioni spiate, dell’intimità calpestata. Rabbia e orrore.

Nello Xinjiang la verità è impossibile da ascoltare.

E il mondo, dopo, quando arriva e si scontra con quella realtà claustrofobicamente aberrante della prigionia, della reclusione, diventa l’ennesimo palcoscenico della finzione: tutti sanno dei campi e nessuno ne parla, come si può ritornare col pensiero a quell’abominio? ” E se non se ne parla, allora i campi non esistono“: un pensiero feroce, automatico, che solo apparentemente protegge chi c’è stato dal ricordo perché in realtà condanna quel periodo quasi a un mondo altro, a un incubo condiviso ma lontano, dilatato. Come dilatati sono stati gli anni per Gulbahar: che fine hanno fatto le compagne di cella? Quei volti scavati e ossuti, costretti a firmare confessioni fasulle con il sottofondo delle torture dei propri cari? Quante sono sparite? Quanti sono rimasti? E a loro che destino appartiene? Perché la storia, la voce di Gulbahar è una tra tante inascoltate, dimenticate, sussurrate e vegliate dalla polizia, con lo spettro della paura in agguato, un fantasma che perdura e a cui la storia di Gulbahar dona un corpo, testimonianza di carne e anima di un massacro che assume sempre di più i contorni di un genocidio ai danni degli uiguri, minoranza islamica insediata da generazioni nello Xinjiang, “corridoio strategico” per la “nuova via della seta”, tormentata, repressa violentemente dalla Cina comunista.

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