La notte arriva sempre

La notte arriva sempre

Buongiorno, lettori! Oggi vi parlo del romanzo La notte arriva sempre, scritto da Willy Vlautin (traduzione di Gianluca Testani) ed edito da Jimenez Edizioni che ringrazio per la copia.


Lynette ha poco tempo per non cedere alla sconfitta. Ad appena trent’anni, è già esausta. Eppure il suo sogno è modesto: comprare la casa in cui vive con la madre e il fratello e procurare loro quella sicurezza che non hanno mai avuto. Nella sua città, una Portland sempre più alla moda, i prezzi delle abitazioni in pochi anni sono più che raddoppiati, le case popolari sono state convertite in condomini prestigiosi, i negozi a gestione familiare rimpiazzati da boutique di lusso. È l’illusione del sogno americano: benessere per tutti. Ma c’è un prezzo da pagare, ed è un prezzo che non tutti possono permettersi. A Lynette sono serviti una miriade di lavori e l’aiuto della madre per poter trovare i soldi necessari all’acquisto. E quando la madre le nega i soldi promessi, è costretta a spingersi oltre i propri limiti per ottenere il denaro di cui ha bisogno. Ambientato nell’arco di due giorni e due notti, “La notte arriva sempre” segue la frenetica odissea di Lynette, una spirale di impotenza e speranza che la porta ad affrontare avidi riccastri e ambigui trafficanti, in una città nel pieno di un boom economico che la sta trasformando radicalmente. Mentre cresce l’angoscia e le sue richieste di aiuto rimangono inascoltate, Lynette fa una scelta pericolosa. Nel tentativo di salvare il futuro della famiglia, è costretta a immergersi nelle zone più oscure del proprio passato e a confrontarsi con la vera realtà della sua vita.


Gennaio, a Portland piove. Le tre e mezzo di notte, Lynette viene svegliata dal fratello maggiore Kenny, anche se lui sa che dovrebbe lasciarla dormire ancora un pò prima che inizi il turno al lavoro, ma Kenny è un bambino intrappolato in un corpo adulto. Anche Lynette è intrappolata. E così sua madre, Doreen. Sono tutti intrappolati in vite soffocanti, logoranti, con lo sfondo di una città che è diventata accessibile solo per ricchi, in cui per avere qualcosa di proprietà – una casa, il sogno di Lynette – servono soldi, soldi, sempre soldi. Lynette non può accedere ad un mutuo ma ha messo via ogni cosa per comprare la catapecchia che chiama casa. Conserva in un cassetto un quaderno su cui annota progetti per rendere decente il posto in cui vive, una volta che sarà di loro proprietà. Ormai il padrone di casa è invecchiato, vuole vendere, il mercato immobiliare è impazzito e tutti lo sanno che questo è il momento per vendere e comprare ma Lynette ha bisogno di sua madre per accedere al mutuo.

Fa due lavori, studia, ha trent’anni. La penna la segue, incollata alla sua figura, alle sue azioni, routine quotidiane che le servono per arginare la bestia che si annida nel suo profondo. Perché Lynette – e sua madre non perde occasione per ricordarglielo – non è sempre stata la donna responsabile che sembra essere adesso. E’ stata una ragazza rabbiosa, problematica, difficile, si è chiusa in se stessa, ha chiuso tutti fuori, partendo proprio da quella madre che ora sembra vivere fusa col divano e con una coperta termica, con una Tv sempre accesa, un lavoro a cui da spesso forfait e le sue sigarette. Ma un tempo le cose erano diverse – e non sempre diverso significa migliore. Un tempo, Doreen ha visto sua figlia di diciassette anni fuggire di casa, fuggire da lei, e poi tornare insanguinata, spezzata, arrabbiata, devastata e devastante: lei ha provato a parlarle, ad accudirla come poteva e come riusciva considerando che anche lei, a sua volta, era una donna abbandonata ma Lynette non riusciva a trovare spazio per le parole alla madre. Quante altre volte si deve scusare per quello? Si chiede e le chiede Lynette. Ma Doreen è spaventata all’idea che quella parte di sua figlia, distruttiva e cattiva, torni. Cattiva, cattiva. Ecco, il passato di Lynette le incolla addossa quest’aggettivo.

E mentre i suoi sogni crollano, Lynette crolla non in una sorta di apatia abulica come sua madre ma agisce, un movimento costante, incessante che non lascia spazio per la riflessione sulla pericolosità delle sue azioni, vissute senza paura. Lynette deve comprare quella casa, racimolare quei soldi, poi, dopo, avrà forse tempo per pensare a cosa sta facendo, a quali parti di lei stanno risalendo la corrente. Eppure lei non sembra esserne consapevole: sono sempre io, no? Si dice. Sto lottando per avere qualcosa di mio, ne avrò il diritto? Ma è un diritto o un dovere? E’ qualcosa che davvero fa per suo fratello e per la sua famiglia o è un fare, un agire che serve a proteggerla dall’abisso in cui ricadrebbe? Cosa farebbe Lynette da sola? E’ lei l’appoggio di Kenny o viceversa?

In una spirale di autodistruzione, Lynette ci mostra l’altro suo lato, quello nascosto, quello di cui si vergogna e che cerca di ingoiare da tanti anni; nel suo passato tutti sembra averla “superata”, sono passati oltre e il solo riapparire di Lynette li infastidisce come se lei testimoniasse una vita diversa che nessuno vuole più. Come se Lynette non fosse mai esistita, come se non avessero preso parte, non l’avessero lanciata anche loro verso quella fine. Lynette è frutto di quelle scelte sbagliate? Quanti anni ancora deve scontare quella pena, non solo nel mondo esterno ma soprattutto con se stessa? Quando si perdonerà per quello che è stata e per quello che le è capitato? Perché Lynette si è sentita sola, è stata abbandonata, usata, umiliata, vessata, violata e violentata nel cuore, nelle intenzioni, nel corpo, un corpo che lei poi ha venduto e svilito, con sesso e dimagrimento, come una colpa da espiare. Convinta che le attenzioni non desiderate generassero odio e gelosia, che per essere amata, per avere un posto letto, fosse necessario scaldarlo prima, accettare fotografie porno, convinta che nascondere la sua parte buia e mostrarsi sempre felice l’avrebbe protetta dal perdere l’unica relazione sana della sua vita (ma lo era davvero?), Lynette vive con queste convinzioni, si tiene in piedi dolorosamente e faticosamente. La immagino raggomitolata in quel seminterrato, a cercare di capire il mondo e se stessa.

La immagino figlia e sorella, madre, compagna: la immagino nelle sue routine, nelle sue azioni, fisicamente tesa al futuro, al finire il giorno per iniziarne un altro senza pensare, senza fermarsi a riflettere sullo squallore che le si muove attorno e poi scontrarsi con una madre che invece quello squallido vuole arginarlo, forse rigettarlo, su di lei, su tutti gli altri. Esausta, ecco. Esausta Doreen, lanciata in un monologo sul cinismo del mondo moderno, sulla questione del sogno americano, sui diritti, sui soldi, sempre i soldi, e suoi sogni: un tempo era bella, lei. Un tempo tutti la guardavano, poi … due figli, un marito che sparisce, un figlio con disabilità mentale e l’altra figlia che all’improvviso, quando lei sembrava aver trovato un nuovo amore, devia, scappa. Gelosia, parole brutte, cattive, perverse, volano tra loro in un rapporto madre-figlia complicato e conflittuale, esacerbato da una situazione economica e da un investimento – non solo economico – che Doreen non vuole assumersi. E’ esausta. Ha finito le parole.

E’ il momento per Lynette per capire chi essere.

Un romanzo breve ma non per questo meno intenso, anzi, ambientato in una Portland vorace, famelica, in cui chi non ha soldi resta indietro; una storia lunga due giorni, sufficienti perché questi protagonisti restino incollati nella mente del lettore, finemente tratteggiati da una penna lucidissima, un bisturi che scarnifica ed espone la cruda vita, il crollo del sogno americano, la redenzione e la sconfitta, la speranza, la crescita.

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