Riflessioni da una sedia a rotelle

Riflessioni da una sedia a rotelle

Buongiorno, lettori! Oggi vi parlo di Riflessioni da una sedia a rotelle, scritto da Andre Dubus (traduzione di Nicola Manuppelli) ed edito da Mattioli1885 che ringrazio per la copia.


I venticinque saggi che fanno parte di questa raccolta sono una dimostrazione della vulnerabilità dell’autore, della sua visione del mondo e della sua indistruttibile fede.
Dopo essere rimasto bloccato su una sedia a rotelle in seguito a un incidente, Dubus ha sperimentato cosa significhi la disperazione, imparando successivamente ad accettare la sua condizione, fino a comprendere come la gioia si possa trovare anche in quella sacramentale magia che è la vita quotidiana. Che scriva del suo rapporto col padre, dello stupro dell’amata sorella, della fede cattolica, della sua ammirazione per scrittori come Hemingway e Mailer, o del semplice gesto del preparare dei panini per le figlie, Dubus ci porta dritti al cuore delle cose.

Una storia può sempre rompersi in mille pezzi, anche quando è dentro un libro, su uno scaffale, e decenni dopo che l’abbiamo letta e riletta anche venti volte, con un taglio o una carezza può aprire in noi una nuova verità. | a. d.


In questi venticinque frammenti di vita, Dubus si racconta mostrando il ritratto di un uomo che resiste, la cui forza risiede nella consapevolezza della situazione che vive, di quell’incidente che lo costringe alla sedia a rotelle, al ricordo dolorosamente vivo e reale di quando aveva due gambe, alla gratitudine, così difficile da raggiungere, per il passato ed il presente. Sono fotogrammi che mi hanno lasciato la sensazione di aver accarezzato un uomo che ha vissuto così tante esperienze da lasciarmi ammutolita, un uomo le cui parole si leggono con la sensazione di ascoltarlo parlare, aprirsi, dirsi.
Ci sono sicuramente dei temi portanti in questi scritti, argomenti e sentimenti che tornano, cose che Dubus vuole e deve dire: uno di questi argomenti preponderanti è il suo intenso rapporto con la fede. In diversi passaggi torna sul suo rapporto con Dio, sull’idea del miracolo, della gratitudine, del sacramento. Ecco, quest’ultima parola mi ha particolarmente colpita per l’accezione che ne da l’autore: “un sacramento è qualcosa di fisico, dentro di esso vi è l’amore di Dio. E’ fisico come lo è un panino, nutriente e piacevole, e dentro c’è l’amore, se qualcuno te lo porge e te lo dona con amore“. Da qui, l’autore ci racconta delle difficoltà quotidiane che incontra nel ristretto spazio della sua cucina quando si muove per preparare i panini alle sue due figlie minori, per quei giorni in cui le va a prendere a scuola e trascorre del tempo con loro; con la sedia a rotelle ci sono movimenti da calibrare per non bloccarsi e sarebbe così facile cedere alla rabbia ma se nei suoi gesti legge un sacramento, la possibilità di esso, allora questo ricolloca l’essenza dell’azione e le dona una nuova prospettiva fatta di grazia. Nelle sue pagine, Dubus ripercorre il rapporto con suo padre, i suoi anni in Marina, la relazione con i suoi figli nati da diversi matrimoni: sono istantanee di vita, ritratti famigliari, cene o dialoghi brevissimi che mettono in luce la profondità di quest’uomo, che sa raccontarsi con sincerità e passione.
Sono pagine che parlano di un corpo diverso, un corpo che sente e vibra di passione, un corpo che non si arrende ma ha bisogno di un tempo per ritrovarsi nei nuovi schemi; ed è così che Dubus mi fa riflettere sull’idea di essere trasportati, sui corpi che non si sentono parte di una comunità, in un percorso di accettazione lungo.

C’è l’amore, una sorta di memoria fisica che non si può spegnere o accantonare dopo la separazione o il divorzio, ci sono gli amici, le partite di baseball. Ero lì con lui, con i suoi amici e con la folla ad esultare, a condividere un momento di unione tra sconosciuti; ero con lui alla grigliata per il compleanno della figlia ed ero con lui al suo primo lavoro, durante la notte insonne prima di un incontro importantissimo con il suo editor. Ero nell’impotenza e nella fragilità e nella bellezza dell’emozione, nella disperazione e nella gratitudine (parola che ricorre nelle sue pagine). C’è la perdita di un padre il cui rapporto è stato connotato da un reciproco imbarazzo, c’è quel sacramento d’addio di un bicchiere con del ghiaccio e il rimpianto di un “ti voglio bene” non detto. Ci sono gli episodi giovanili con la convinzione adolescenziale di essere invincibili, c’è la Marina, la carriera scolastica; c’è un mondo che non si chiude intimisticamente su se stesso perché l’autore ci fa vedere anche ciò che accade fuori e tocca la sua vita. C’e’ la consapevolezza di un’empatia mediata dall’imbarazzo verso il diverso e poi l’apprendimento dall’esperienza personale che rimette tutto quanto vissuto fino a quel momento in una luce nuova.

E ci sono le gambe, gli arti che presiedono ad un movimento ora precluso che però non può escludere in un uomo così vitale il movimento del pensiero, dell’emozione; ci sono quelle gambe, l’esercizio fisico come strumento per liberare la mente e sentirsi bene e ora alla deriva. I momenti bui ci sono stati e Dubus non esita a mostrarli, come le sue lacrime, mai nascoste a nessuno, sempre occasione di dialogo e confronto con i figli; c’è l’Eucaristia, la Comunione spirituale con un Dio che ama e che lo aiuta ad affrontare il buio. C’è la solitudine e poi una parola, un incontro, uno sguardo, un riconoscimento e quella solitudine diventa altro.

E ovviamente c’è la scrittura, pilastro fondamentale: insegnata, spiegata, ascoltata, venerata; dai primi esordi allo scontro con il mondo dell’editoria, Dubus ci racconta delle sue paure come autore, della sua determinazione a proteggere e salvaguardare il suo lavoro. E ci parla delle sue influenze, degli autori che ha conosciuto, dei suoi miti e dei suoi amici, scrive per loro, scrive di loro: la parola è salvifica. Ci racconta di come vive e affronta il suo mestiere, delle parole che non può mettere in fila mentre fa altro perché altrimenti vivrebbe già nella sua testa l’intera storia e alla scrivania incontrerebbe il vuoto del già successo; di come preservi quelle frasi su taccuini, lasciando crescere dinanzi alle palpebre i personaggi, i loro volti, le loro storie e poi, solo alla fine, si sieda alla scrivania.

Non possiamo scrivere le nostre storie in modo perfetto, solo nel miglior modo possibile.

Dal suo amore per Hemingway alle lezioni, i laboratori che dedica alla scrittura e agli scrittori, fino alla rilettura alla luce del suo incidente di alcuni passaggi letterari tanto amati: nell’epilogo di In un altro paese, ora scorge il simbolismo di una forza ad agire e reagire nonostante la perdita e il dolore, perché si è vivi. La verità di una storia si apre a chi la cerca, quando si è pronti per accoglierla. La guarigione richiede Tempo.

E i suoi scritti autobiografici hanno la potenza narrativa di racconti, sullo sfondo di un’America diversa, meno accogliente e tollerante, sperimentando in prima persona l’isolamento e l’esclusione ( incredibilmente attuale la lettera che scrive al presidente e ad altri leader quando affronta un agghiacciante viaggio prima in treno e poi in aereo in una nazione che fa dell’indipendenza il proprio orgoglio ma nella quale per la prima volta non si sente riconosciuto). Pagine intense, parole autentiche, paure e fragilità, forza e coraggio di un uomo che narra qualcosa di sé: “ma oggi è arrivata la luce: sono qui”. E attraverso il suo racconto, la sua figura e la sua esperienza, ho portato con me spunti e riflessioni, prospettive da cui osservare la mia l’altrui esistenza.

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