Sfacelo

Sfacelo

Buongiorno, lettori! Oggi vi parlo del romanzo Sfacelo, scritto da René Barjavel (traduzione di Claudia Romagnuolo e Anna Scalpelli) ed edito da L’orma editore che ringrazio per la copia.


Francia, 2052. In un futuro ipertecnologico, in cui ogni aspetto dell’esistenza è governato dalle macchine, l’elettricità viene improvvisamente a mancare. Nel giro di pochi giorni incendi devastanti divampano in ogni città e un’ondata di calore senza precedenti fa evaporare le riserve d’acqua. È la Natura violata che si ribella al giogo imposto dall’uomo, non lasciando scampo né possibilità di redenzione. L’umanità si ritrova catapultata in un mondo in cui vige solo la legge della sopravvivenza.
Sullo sfondo di una Parigi in balia di bande di sciacalli ed epidemie di colera, il giovane François Deschamps si mette alla guida di uno sparuto gruppo di superstiti: la loro unica speranza è raggiungere l’incontaminata Provenza e rifondare una società libera dai micidiali errori del passato.
Scritto nel 1942, sotto i bombardamenti della Seconda guerra mondiale, Sfacelo è un classico della fantascienza che si è conquistato in molti Paesi una fama enorme e duratura e che è tempo di riscoprire anche in Italia. In questa parabola ecologica, sbalorditiva predizione del nostro presente, René Barjavel costruisce un perfetto congegno narrativo dal visionario taglio cinematografico, non risparmiandoci nulla dell’orrore che si sprigiona quando si toglie ogni freno agli istinti più oscuri dell’animo umano.


Lo chiamano “progresso” … ma quale progresso! Non è altro che un avanzare inesorabile verso la morte.

E’ il 2052 e la Francia è catapultata in un progresso tecnologico che ha cambiato l’assetto della società a cui ha fatto eco una sorta di ritorno a uno stile di vita definito più “umano“, volto a riappropriarsi di una serie di sensazioni che, ad esempio, l’estrema velocità dei trasporti aveva cancellato. Questo non vuol dire che non vi sia la tecnologia, anzi, è presente ma in un moto di nostalgia verso il passato si accontenta la popolazione con l’illusione delle rotaie. François Dechamps ha ventidue anni, è un giovane attivo, pieno di volontà e ambizione a vivere la propria vita, ed è il motivo per cui sta tornando a Parigi: ha sostenuto gli esami per essere ammesso alla Scuola superiore di Chimica agraria ed è in attesa di conoscere i risultati. Inoltre, a Parigi vive la sua amica Blanche, sua compaesana.

Jérôme Seita è un uomo poco attraente ma molto potente, ed è determinato a fare di Blanche la star del suo spettacolo, ad ogni costo, anche mentendo, manipolando, introfulandosi nella vita di François e promettendo mari e monti alla giovane donna, seducendola con doni e possibilità che l’altro non potrebbe mai offrirle. Mai quanto ora, il divario, economico e d’età, tra i due è evidente per Blanche: mosche morte nell’acqua di un pentolino contro gioielli, un appartamento nuovo e una cena in un castello scozzese. François però non ci sta, e si assume un pò il compito di eroe salvifico: la sua Blanche non può essere una mera pedina nelle mani di quest’uomo. E lui la salverà. La ragazza, dal canto suo, è atterrita dall’idea di una vita come “moglie di“, relegata a quei ruoli femminili per cui la famiglia stessa l’ha mandata a Parigi; nessuno sa che qui lei sta per diventare Regina Vox, stella e padrona del suo destino. Nel giorno del suo debutto, però, l’interesse mondiale viene spostato su un evento di portata agghiacciante: l’Imperatore Nero, sovrano dell’America del Sud, ha dichiarato guerra all’America del Nord, con un attacco mirato a bersagli sensibili e di una potenza inaudita. François, a casa di un ricco amico, accoglie la notizia con rassegnazione quasi, leggendola come frutto inevitabile di un progresso tecnologico cui non fa fronte uno di carattere morale; le sue antenne emotive sono drizzate a cogliere ogni sensazione sensoriale proveniente dalla trasmissione televisiva in cui ci sarà Blanche, per la quale ormai è innegabile provi più di un affetto amichevole.

E sul più bello: il buio. Il silenzio, ramificato.

A lottare contro la prepotenza della notte restavano solo la timida luce della luna nuova e il fugace bagliore di qualche accendino.

Il panico sconvolge una città senza più punti di riferimento: gente agghindata con abiti magnetizzati si ritrova nuda, gli aerei crollano a terra, treni fermi, risse. Angoscia e paura per una situazione ingestibile: la scena della fuga dall’emittente Radio -300, a mio avviso, contiene una forza, una brutalità incredibile. L’ élite della società costretta a scendere per novanta e passa piani, senza mezzi per orientarsi: e in questa discesa agli inferi, si consumano tragedie personali, furti, omicidi. L’umanità smarrita. Il panico non dilaga solo in piazza ma anche nelle sedi del governo, chiamato a prendere decisioni e a capire cosa stia succedendo: complotto? Rivoluzione? La realtà, che il capo del consiglio vuole comunicare, è ben più complessa: la Natura si sta ribellando, con conseguenze inimmaginabili in un mondo che basa tutta la sua esistenza sull’elettricità.

In strada, gli episodi di sciacallaggio dilagano, l’acqua è finita sotto un sole rovente, tutta Parigi tenta di fuggire senza successo; solo François corre in direzione opposta per andare da Blanche e salvarla riportandola con lui in quel piccolo locale dietro l’atelier, ormai pronto a compiere ogni gesto, lecito e soprattutto illecito, per salvarla. Ma la tragedia non è finita: l’uomo sfida ancora la Natura e la sua negligenza si abbatte con il furore di un incendio, che colpisce una certa parte di Parigi, città rimasta di fatto senza un governo, dove vige la legge marziale, la legge della giungla. L’autore riesce a dipingere una situazione terrificante, con un linguaggio moderno e quasi cinematografico: i rumori cessati, gli odori, le urla, la rabbia, e questo cocente sole che non offre riparo a un’umanità disumana.

François, radunato un piccolo gruppo, decide di affrontare il pericoloso viaggio verso la Provenza, che renderà necessari atti violenti. Non c’è più spazio per la pietà in questo tempo presente funestato dalla cenere e dal bisogno di andare via. Non è il momento della sensibilità ma è quello del tremendo ricorso agli istinti primordiali e alle “regole dei clan“: sopravvivere, salvarsi, obbedire. E François, senza pensarci troppo, si assume la responsabilità di essere quel capo cui obbedire, come un uomo novello, un leader senza paura, dotato di una determinazione cieca e quasi furiosa, arma il suo gruppo e lo equipaggia. Non è pronto però per il viaggio, estenuante sia fisicamente che psicologicamente; al gruppo, stremato, accadranno cose terribili, che fanno mettere in dubbio la sanità mentale degli stessi e l’umanità di chi è sopravvissuto. La Natura, poi, appare logorata, ferita, arrabbiata, quasi punitiva. In alcuni passaggi di questo viaggio ammetto di essere stata sopraffatta dalla paura, dall’orrore, dall’angoscia: ciò che il gruppo vedeva, ciò che l’autore con il suo stile inconfondibile narrava, era a tratti troppo soverchiante. Brutale. Un’apocalisse continua, eppure, un tenero spiraglio: la speranza della vita che rigogliosa cresce quasi per sbaglio, nella Natura e nel gruppo, con una nascita.

Sicuramente, il punto di forza di questo romanzo è l’ambientazione. Il mondo in cui i protagonisti si muovono ha abbattuto l’allevamento del bestiame che ora viene “coltivato” grazie alla chimica: ora si trovano in commercio carni che ricordano il gusto di animali, o di celebri preparazioni; stesso destino per le uova ( ora in flacone) e il latte ( a rubinetto). Montparnasse, il famoso quartiere di Parigi in cui François soggiorna, è un caleidoscopio di suoni e rumori: l’ultimo censimento conta venticinque milioni di anime, solo a Parigi. Il progresso, così come accaduto storicamente nel passato, ha portato ad un accentramento nella metropoli, brulicante di vita. I quartieri sospesi sono diventati sempre più preponderanti e ancora non abbastanza per soddisfare la richiesta; eppure, fuori da questa città, vi sono piccole realtà in cui il progresso non è arrivato, dove il tempo non sembra passato e i colori della natura, i suoi frutti, sono vivi più che mai. Ed è proprio da uno di questi piccoli villaggi che provengono Francois e Blanche, figli di genitori che nutrono per loro determinate aspettative, di amore e realizzazione.

Quel canto di nuova vita riecheggiò a vuoto tra le cime delle montagne inaridite e giù nella landa deserta, screziata di fuoco e di morte.

La costruzione del mondo è puntuale, precisa, visionaria e potenziale, possibile: ci sono innovazioni tecnologiche di grande impatto, l’utilizzo di un materiale come il “plastec“, innovativo, ma anche dei retaggi che si insinuano nella società in modo quasi inquietante. E’ l’esempio dei “Conservatori“, zone centrali delle abitazioni in cui vengono conservati i propri cari defunti in modo da poterli sempre osservare e considerare parte della famiglia; si spezza il pane a tavola rivolgendosi a loro, si chiudono le tende per avere rapporti intimi in rispetto a loro, una presenza che incombe e che inquieta. Ovviamente, è ad appannaggio dei ricchi: le classi meno benestanti, infatti, non possono permettersi un tale dispendio economico per abbellire, adornare, arredare tali “conservatori“, e truccare, acconciare, i propri morti. Ma come insegna la storia, una catastrofe è una livella sociale: il denaro non è più un facilitatore sociale in un mondo alla deriva; il ricco, anzi, vede i propri quartieri devastati e cerca riparo in quelli dei poveri. E’ la guerriglia cittadina, poi l’incendio, la fine di un’epoca, e in tutto ciò la solitudine di non sapere nulla del mondo esterno, anzi, il disinteresse totale per esso. L’umanità in ginocchio si chiude in se stessa, non ha spazio per il pensiero dell’altro.

Se da una parte la descrizione di questo mondo è ben caratterizzata ed è riuscita a farmi immaginare tutto, per quanto riguarda i personaggi, invece, ho avuto qualche perplessità. François viene da subito presentato come un ragazzo attivo, che odia stare fermo con le mani in mano o in attesa che altri controllino la propria vita, ma la sua tendenza all’azione, a mio avviso, si estremizza nel rapporto con Blanche, la ragazza che ama, spingendolo sì a lottare per salvarla dal momento di black-out della civiltà ma decidendo lui per lei in merito al destino della propria vita. E, purtroppo, Blanche in questa ambiguità sembra sguazzarci: prima si arrabbia, poi, troppo debole per una caducità da ammalata, non reagisce, anzi, guarda con tenerezza il sonno di François che ha appena deciso di buttare via il suo anello di fidanzamento. Dal momento del black-out prima e dell’incendio di Parigi poi, François muta ancora, diventando un leader determinato, a tratti freddo, spietato, capace di prendere decisioni di vita e di morte, così centrato sull’obiettivo della salvezza di questo suo sparuto gruppo da non avere spazio per altri sentimenti. Dinanzi ad una Natura matrigna, alla sete, al fuoco, alla devastazione di orizzonti interiori ed esteriori, è come se inaridisse anche il suo cuore oltre che la sua pelle; e anche Blanche è figura marginale sullo sfondo perché ciò che emerge è il mondo circostante, con la sua drammaticità. Con la sua fine. Anche quando finalmente arrivano in Provenza, e i due scoprono di aver perso tanto, François smagrito e dolorante riesce solo a focalizzarsi sull’urgenza di andare avanti, di procreare, di rifondare. Che ne è dei sentimenti di Blanche? Dei suoi sogni? In un moto accelerato, arrivano a Vaux, dove c’è una possibilità di vivere: qui, dove François e Blanche sono nati, il ragazzo diviene capo del villaggio e impone una serie di regole, impartendo ordini. Non solo, sembra che l’intera società – o ciò che ne è rimasto – si stia organizzando in piccoli gruppi, in un ritorno alle tribù, alle origini, ripercorrendo la storia. François, “capo temporale e spirituale” ridisegna la sua concezione sociale, la struttura del mondo nuovo, diviene Padre, fulcro attorno a cui tutto gravita in una società che deve fare i conti con tante donne e pochi uomini, lui che è l’unico testimone di quel mondo in cui la macchina è stata la deriva dell’uomo. Ma è stato davvero così?

La scrittura di Barjavel è come sempre magistrale e impeccabile: nonostante il romanzo sia calato nel periodo in cui è stato scritto e riflette una certa visione della società, è scritto anche un linguaggio e uno stile capace di descrivere non solo il progresso tecnologico di un mondo, ipotizzando un futuro sicuramente lontano dal suo presente ( il romanzo è stato scritto nel 1942), ma capace di creare atmosfere dense di angoscia che mi hanno lasciato un senso di finitudine e caducità, oltre che diverse riflessioni sull’essere umano e sul suo rapporto con la natura e con la storia: l’uomo è destinato sempre a compiere gli stessi errori? E se non lo è, l’unica alternativa è un ritorno alle origini del patriarcato, senza tecnologia né macchina? Esiste spazio per la scoperta, per l’innovazione o il progresso è sempre e solo il male assoluto? E la donna è destinata ad essere figura su uno sfondo, assoggettata alle leggi del Padre?

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