Il caos da cui veniamo

Il caos da cui veniamo

Buongiorno, lettori! Oggi vi parlo del romanzo Il caos da cui veniamo, scritto da Tiffany McDaniel (traduzione di Lucia Olivieri) ed edito da Atlantide Edizioni, che ringrazio per la copia.


“Una ragazza diventa donna davanti al coltello. Deve imparare a conoscerne la lama. La ferita. A sanguinare. A portare la cicatrice senza smettere, in qualche modo, di essere bella e con le ginocchia abbastanza forti da poter strofinare il pavimento della cucina ogni sabato. Sarai perduta o trovata. Due verità che pos- sono accapigliarsi per l’eternità. Ma cos’è l’eternità se non un’intricata bestemmia? Un cerchio incrinato, lo spazio di un cielo acceso di fucsia. Se la portassimo giù sulla terra, l’eternità sarebbe un susseguirsi di vette lontane. Una terra nell’Ohio, dove tutti i serpenti nascosti nell’erba saprebbero in che modo gli angeli hanno perduto le loro ali. Accenderei una candela ora, ma finirei per dimenticare poi di spegnerla, e la mia casa andrebbe in cenere. Un mucchietto di cenere tanto piccolo da farmi dubitare di averne mai posseduta una. Una casa si costruisce dal principio e il mio principio sono Landon e Alka, mio padre e mia madre…”Indimenticabile, lirico, estremo, sconvolgente, il nuovo romanzo dell’autrice rivelazione de L’estate che sciolse ogni cosa, idealmente ispirato alla vita di sua madre (nel libro Bitty Lazarus) e alla famiglia di lei, viene pubblicato in prima edizione mondiale da Edizioni di Atlantide insieme alla prima raccolta di poesie di Tiffany (anch’essa in esclusiva mondiale).


Parlare di Bitty Lazarus è difficile: la sua storia è l’essenza agrodolce del ricordo, dell’infanzia perduta, dell’innocenza che viene strappata in tanti, sottili, modi differenti. Ma, soprattutto, è parlare della sua famiglia, dolorosamente complessa, perfettamente calata nel contesto storico-culturale e paesaggistico che l’autrice magistralmente riproduce. Come accaduto per le altre opere, la prima persona narrante si fonde con la voce dell’autrice e inevitabilmente mi ha coinvolta in un modo profondo: ero lì, con i Lazarus, a sentire il caldo asfissiante dell’Ohio, a godere di piccoli piaceri momentanei, a percepire il profumo del caprifoglio, la paura di quel coltello maldetto, le tensioni montanti, le fragili felicità, i tradimenti e le angosce, i bisogni così umani che i vari personaggi provano. Bitty non vuole redenzione per le sue scelte, per le sue azioni, non cerca l’approvazione né la giustificazione del lettore, anzi, si espone nuda con le sue cicatrici e si racconta in un viaggio personale che diviene storia familiare. Il rapporto dei Lazarus con il mondo esterno è croce e delizia: si influenzano a vicenda, eppure nel racconto, il focus è tutto su questo caotico nucleo familiare che mi ha lasciato riflessioni. Bitty a volte denuda gli eventi, a volte ce li lascia percepire, gelosa di custodire una verità anche difficile da enucleare perché fatta di sensazioni, di doveri inconsci a cui non ci si può sottrarre: una madre e un padre devono amare sempre i propri figli, a prescindere dalle loro colpe; i fratelli devono proteggersi sempre; e, infine, su tutto, quella mano provvidenziale del divino così radicata nell’America dell’epoca.

Bitty è figlia di Alka e Landon: lei bellissima, lui dalla pelle rossastra in un mondo che marchia qualunque cosa sia fuori dai canoni come diverso. Tanti sono i nomi con cui Landon è stato chiamato ma solo una persona si è rivolta a lui come “signore”, e cioè Alka, una ragazza difficile, che diventerà una donna ancor più difficile. Alka, come tante donne, è diventata tale davanti al coltello, una lama affilata e dieci volte più tagliente perché proviene da mani che dovrebbero guidare e non soffocare, non stuprare e strappare l’anima. Ma Alka impara presto che nella vita è sola, che Dio, secondo lei, non ama le donne, e fugge da questa realtà in modo caotico, imprevedibile, quasi punendo la sua famiglia e se stessa. Alka è una madre che non riesce a relazionarsi in modo sano e autentico con i suoi figli, è una donna insoddisfatta: il ritratto che ne fa Bitty oscilla tra amore e momenti di odio, di incomprensione, per una madre che fa di tutto per non ammettere a se stessa di provare e ricevere amore, convinta com’è che non ce ne sia per lei. E come potrebbe essere altrimenti per Alka?

Landon è già un uomo quando la incontra, in un cimitero, avvolta dalla morte eppure bellissima, viva, palpitante: un frutto da cogliere e che gli si dona con famelica consapevolezza. Landon, poetico costruttore di storie, ricercatore di stelle, un uomo che non ha nulla ma solo in apparenza, un padre che conta le stelle presenti nel cielo alla nascita dei propri figli. Un uomo che sa il male annidato tra i suoi preziosi eredi ma che non fa nulla. Vigliacco? Bitty, nel disincanto della crescita, penserà di sì, e poiché lei è quella che gli somiglia di più crede di aver ereditato anche la sua immobilità, spettatrice quasi passiva delle brutture che accadono ai suoi fratelli. Quanto dolore, quanta sofferenza. I Lazarus vengono additati come portatori di una strana malattia, quasi una pazzia, una sorta di caos come dirà Landon alla figlia Bitty: ma questo è il loro caos, è il loro disarmonico equilibrio, è il loro leggere nei gesti degli altri componenti della famiglia quell’amore che faticano a dire. Bitty ama scrivere ed ha il dono della poesia cui approda prima con dolcezza, poi con rabbia e amarezza per quelle cose che vede e che non capisce o non vuol capire. Fraya, Leland, Flossie, Hawkthorne, Trustin: ognuno con una vita complessa, con desideri che vogliono realizzare, con paure, angosce, segreti. Ragazzi e ragazze che vogliono sognare, vogliono vivere la libertà della loro vita. Foglie di un albero che traballa, ma c’è.

Spesso l’amore si nasconde sotto altre maschere e diventa corrosione, manipolazione, putrefazione; si prende l’anima e si trasforma in possesso e maledizione. In queste pagine c’è tutto questo ma c’è anche l’amore puro dell’infanzia di una figlia per un padre dalle cui labbra pende, e c’è un padre che le lascia credere di essere l’unica. C’è un padre che fa sentire a suo modo, ogni figlio speciale, raccontandogli storie che servano come lezione, che restino anche dopo; c’è un uomo che sbaglia, che ha peccati da espiare ma per cui la ricchezza è avere i suoi figli. Luce e ombra, sempre, in costante movimento: tanta più luce ci viene mostrata, tanta più oscurità sappiamo che troveremo. Ci può essere speranza alla fine? Dopo il male, il marciume, dopo il dolore e le cose che si potevano evitare, dopo aver preferito non guardare, ci può essere redenzione?

Nella mitologia greca, Caos è l’essere primigenio. Qualcuno può pensare che la mia famiglia corrisponda a tutto questo. Una madre e un padre in un vortice di irrequietezza. Figli che vivono nel disordine, nella confusione assoluta. Questo siamo noi. I Lazarus. Un caleidoscopio infranto. Sì, forse siamo il Caos. Ma è stato una meraviglia esserlo.

I rapporti familiari sono il perno della narrazione che prosegue andando a ripescare eventi nella memoria di una Bitty che immaginiamo già adulta: sono ricordi legati a situazioni particolari che le hanno permesso di far luce su segreti e paure, sono momenti di vita conviviale, di una quotidianità semplice, sono episodi di razzismo e discriminazione, di violenza verbale e di rabbia. Tramite le esperienze delle sorelle maggiori, Bitty parla del sesso, della condizione femminile, delle problematiche giovanili, dei primi amori. Le Tre Sorelle dividono la stessa stanza e tanti segreti, legate dalla storia che Landon racconta loro: mais, fagiolo e zucca, le tre sorelle, le tre piante che si intrecciano per dare vita alla coltura. Eppure, ci sono momenti in cui ognuno dei personaggi sembra chiuso in una solitudine invalicabile, chiuso nei propri tormenti impossibili da condividere. Una coppia genitoriale che non lo è più da tanto tempo e che sembra ritrovarsi, perversamente, sadicamente, solo nei momenti di lutto che attanagliano la loro esistenza; come si può piangere un figlio? Come si può uccidere un figlio? Questo si chiede Bitty, figlia e sorella. Sullo sfondo, città che cambiano al cambiare del lavoro di Landon fino a giungere a quella Breathed, Ohio, scossa da spari di fucile frequenti e misteriosi, che sono coincisi con l’arrivo in città di quei Lazarus. Chi è che spara e perché?

Tante e diverse sono le tematiche che l’autrice tocca, con il lirismo del suo stile inconfondibile, in un romanzo che è un mix tra romanzo di formazione e romanzo famigliare: ci offre una famiglia con le sue voci, con i suoi lutti e le sue misere gioie sullo sfondo di un periodo storico difficile. I Lazarus combattono con la fame e la povertà, eppure se Bitty non lo dicesse apertamente passerebbe quasi in secondo piano rispetto alle vicende della sua famiglia, rispetto agli screzi e ai dissapori, ai momenti no della madre e alle storie del padre, intrise di conforto e morale. Questa è la storia di una famiglia che si spezza, perde i suoi pezzi, è la storia di Bitty, del suo sguardo curioso e dei suoi sensi di colpa: avrebbe potuto fare qualcosa per salvare i suoi fratelli? Avrebbe potuto essere una persona diversa per loro? Troppo facile dall’esterno dire cosa avrebbe dovuto fare, come Bitty stessa capirà: il metro di giustizia che si applica ai propri affetti è sempre personale, ed appannato da quell’ amore folle, viscerale, spesso incomprensibile che si prova per loro. Crescere è un compito dolorosamente difficile, diventare genitore, madre e moglie, padre e marito, figlio, fratello, sorella. Non tradire le aspettative altrui, non tradire se stessi: equilibri precari e fragili tra cui muoversi. Voler essere qualcun altro, voler avere qualcosa o qualcuno di impossibile, sapere che ci sono dei limiti imposti dagli altri per ciò che si può desiderare. Conflitti irrisolti e devastanti traumi mai pronunciati, sussurrati con il terrore e la rabbia del ricordo della solitudine: perché nessuno mi ha protetta? Perché per me non c’ era nessuno? Ostacoli interiori difficili da sopportare, barriere che nemmeno l’amore di un figlio e per un figlio possono superare. Miti familiari che si ripropongono in una ciclicità che non si rompe ma si solidifica e diviene più atroce, generazione dopo generazione. Foglie portate via del vento e ali troppo fragili per volare: la parola dell’autrice diventa poesia che fa male, che si incista nell’intimità del lettore e non se ne va. Leggere la McDaniel, per me, è un balsamo che lenisce la ferita che la sua parola apre, è tormento ed estasi; la sua scrittura viva, tangibile, concreta e al tempo stesso intima, personale, si fa sussurro e lacrima. Ho pianto, ho sorriso, ho amato e perso, ho sofferto e sperato, ho gioito e mi sono arrabbiata: tante le riflessioni che mi sono rimaste dopo l’ultima pagina di un un viaggio che ho divorato con l’angoscia di giungere alla fine, sfumata, accennata. Bitty cosa diventerà, cosa farà? Cosa vuole essere lei? Radice e memoria storica di quelle voci che l’hanno abitata, cresciuta, tagliata e curata, amata a modo proprio. Un sogno in tasca, un inizio, un caos.

In quel momento mi resi conto che ogni bambino impara ogni volta che la culla dondola, lui si avvicina ai suoi genitori per poi discostarsene di nuovo. E’ così che la vita scorre, avvicinandoci e allontanandoci l’uno dall’altro, forse per darci la possibilità di accettare quel momento in cui saremo trascinati via, così lontano che al nostro ritorno la persona che amiamo di più al mondo non ci sarà più.


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