Rebecca la prima moglie

Rebecca la prima moglie

Buongiorno, lettori! Oggi vi parlo del romanzo Rebecca la prima moglie, scritto da Daphne du Maurier (traduzione di Marina Morpurgo) ed edito da ilSaggiatore, che ringrazio per la copia.


Durante un soggiorno a Monte Carlo insieme alla signora cui fa da dama di compagnia, una giovane donna, appena ventenne, conosce il ricco e affascinante vedovo Maxim de Winter. L’uomo inizia a corteggiarla e, dopo due sole settimane, le chiede di sposarlo; lei, innamoratissima, accetta con entusiasmo e lo segue nella sua grande tenuta di famiglia a Manderlay. Sembra l’inizio di una storia da favola, ma i sogni e le aspettative della giovane si scontrano subito con la fredda accoglienza della servitù, in particolare della sinistra governante. Eppure non si tratta solo di questo: c’è qualcosa, in quel luogo, che giorno dopo giorno rende l’ambiente sempre più opprimente; c’è una presenza che pervade ogni stanza della magione e che si stringe attorno ai passi dell’attuale inquilina come una morsa silenziosa. È Rebecca, la defunta signora de Winter, più viva che mai nella memoria di tutti quelli che l’hanno conosciuta e modello inarrivabile per la giovane, che invece si muove impacciata e confusa nella sua nuova esistenza altolocata e mondana. Un fantasma ingombrante che si trasformerà in una vera e propria ossessione per la protagonista, costretta a immergersi nelle ombre del proprio matrimonio e spinta sempre più ai confini della follia, – fino a dubitare della propria stessa identità. Fonte di ispirazione dell’omonimo film di Alfred Hitchcock con Laurence Olivier e Joan Fontaine, Rebecca la prima moglie è l’opera più famosa e amata di Daphne du Maurier: un thriller psicologico ricco di suspense e mistero, colpi di scena e ribaltamenti inaspettati, passioni e segreti. Un grandioso romanzo sulla gelosia e sulla memoria, che conduce il lettore tra le pieghe dell’animo umano, là dove si nascondono gli spettri nati dal dolore più atroce e dalle paure più inconfessabili.


Una giovane ragazza, inesperta e sola al mondo, trova lavoro come apprendista dama di compagnia di un’irritante signora anziana la cui principale occupazione sembra essere quella di rendersi ridicola con la sua invadenza e la sua maniacale attenzione per il pettegolezzo. La signora Van Hopper sembra una falena attratta dalla celebrità, soprattutto se titolata, e tratta la giovane alla stregua di una servetta; la ragazza, dal canto suo, ingenua e goffa, osserva il mondo dei ricchi con uno sguardo ammirato ma sa benissimo quanto il proprio ruolo sia diverso. La signora non perde occasione per sottolineare vere e presunte mancanze della ragazza, quasi un elemento invisibile sullo sfondo delle sue sceneggiate per accaparrarsi la possibilità di mettersi in mostra. Le due stanno soggiornando a Monte Carlo quando incontrano il signor Maxim de Winter, recentemente vedovo e proprietario di una delle tenute più belle dell’Inghilterra, Manderlay. Impossibile per lui sfuggire alle grinfie della Van Hopper che, con domande inopportune, vuole sapere della tenuta e della vita privata dell’uomo; complice, però, uno stato influenzale dell’invadente signora, lui e la ragazza, narratrice in una prima incessante persona della sua storia, iniziano a diventare intimi. De Winter la porta a visitare i dintorni, alternando momenti in cui sembra interessarsi a lei e al suo passato, a momenti in cui si incupisce, forse, pensa la ragazza, pensando al proprio tormentato matrimonio e alla terribile fine della moglie, Rebecca, annegata in mare proprio nella baia nei pressi della loro tenuta di famiglia. Maxim è un uomo sulla quarantina, affascinante, ma soprattutto conosce la vita, mentre la nostra giovane, di cui resteranno segreti età e nome, appare evidentemente subito presa da quelle che forse sono le prime attenzioni maschili che riceve. Pur chiedendosi cosa possa trovarci in lei l’uomo, la ragazza continua con i loro incontri clandestini, nascosti alla Van Hopper che la crede impegnata in attività idonee a renderla una dama di compagnia perfetta (come giocare a tennis); quando la sua volubile datrice di lavoro deciderà di andare in America, per la ragazza arriva il penoso momento dell’addio. Già immagina quella confidenza a fatica costruita svanire nelle lettere sempre più impersonali che i due si manderanno, fino alle inevitabili cartoline natalizie, preludio di una fine definitiva. Chiusa nel proprio dolore, compie una scelta drastica e impulsiva per lei (e per la morale dell’epoca): si reca nella stanza di Maxim e confessa l’imminente partenza. Sarà proprio lui a cambiare per sempre la vita della ragazza chiedendole di seguirlo a Manderlay come sua sposa, diventando la nuova signora de Winter. Cosa si nasconde dietro questa domanda improvvisa? La ragazza se lo chiede quasi come fosse in un sogno, troppo presa dal suo giovane e tenero innamoramento e dal ribaltamento di prospettiva: lei, sposa, lei, padrona di Manderlay.

Ma l’arrivo nella tenuta meravigliosamente imponente ed enorme, riserverà alla ragazza sorprese spiacevoli: se a Monte la presenza della prima moglie era rappresentata da un fantasma abitante nel frontespizio di un libro di poesie, nella sua tenuta lei è ovunque. E’ nelle abitudini, nella disposizione delle stanze, nella scelta di colori e di elementi di decoro, nella carta da lettera e nello scrittoio. Rebecca è ovunque. La giovane è sempre più preda dei propri pensieri, ripiegati su loro stessi, incapace di uscire dalla spirale di gelosia e paranoia, sola e senza una figura amica, grave di responsabilità domestiche che mai aveva creduto di dover fronteggiare. Tutti i domestici la guardano di sottecchi e lei, con il suo atteggiamento arrendevole crede di riuscire a compiacerli: non vuole cambiare nulla, che tutto resti com’era quando c’era Rebecca … solo che lei non è Rebecca. E questo tarlo ossessivo si insinua in ogni sguardo di cui è oggetto, in ogni conversazione immaginaria su di lei e su Maxim. D’altro canto, Maxim supporta davvero poco la giovane sposa, ai cui occhi è spesso scontroso, reagisce con scoppi d’ira quando si trova in determinate situazioni: sta pensando a Rebecca? Si chiede lei. Mi sta paragonando a lei, come fanno tutti: si convince lei. E nel paragone è lei quella fallace, mancante, da deridere e canzonare.

Se Rebecca è l’angelo brillante ed elegante, lei non può essere che Alice nel Paese delle Meraviglie, goffa, taciturna, dalla timidezza quasi patologica, come le dirà Maxim. Le sue visite obbligate si rivelano una serie di monosillabi e finti sorrisi, tra chi le chiede conto delle vecchie tradizioni, come l’annuale ballo in maschera, e chi le ricorda com’era Manderlay sotto la direzione di Rebecca, una tenuta sempre piena di amici londinesi, di feste, colori e vita. Ora, tutto è smunto. Tutto appare di seconda mano, come se la casa stessa, pur nella magnificenza, le sia ostile. La ragazza non riesce a godere nemmeno della bellezza paesaggistica del luogo, così minuziosamente catturata dal suo sguardo sempre preciso e attento alla natura che la circonda: è troppo spaventata, chiusa in se stessa e nelle sue parole. Inadeguatezza e scarsa autostima la confondono, la rendono quasi una bambina, prigioniera di quella casa e dei suoi domestici verso cui prova una sudditanza psicologica incredibile: lei, che dovrebbe essere la padrona, si muove in punta di piedi per paura di essere troppo invadente, di prendersi quel posto che le spetta. Fino a quando, dopo un ennesima malevola manipolazione da parte della terribile signora Danvers, la ragazza, sempre più in preda al disagio e alla convinzione di un prossimo divorzio o di un matrimonio fallito ma di facciata, scopre la verità che serba il cuore di Manderlay stesso. Tutto cade, come un castello di carte soffiato dal vento, tutto si modifica, e quel suo atteggiamento dimesso viene sostituito da una vittoria: la vita contro la morte. Lei è la signora de Winter, lei sola. Rebecca è morta, non può più nuocerle. Maxim è solo suo, il suo amore, solo per lei. Sarà davvero così?

Il romanzo è carico di una suspence strisciante e dolorosamente reale: mi sono trovata stretta nella morsa sempre più stringente della mente della protagonista, con le sue ipotesi, i suoi voli pindarici, la sua fervida immaginazione capace di rincorrere scenari fittizi, conversazioni e dialoghi irreali, certo potenziali, ma tutti nella sua testa, e sulla base di essi, venirne schiacciata. Le unghie rosicchiate nell’angoscia perenne dei propri pensieri, tarlati da un ambiente esterno francamente poco supportivo: apparentemente tutti si dicono comprensivi della sua situazione, un matrimonio veloce e l’arrivo a Manderlay, così lontana dalla sua estrazione sociale, con un uomo come Maxim che persino la sorella definisce non facile. Eppure, nessuno fa davvero qualcosa per aiutarla, o almeno questo è ciò che sembra dal suo punto di vista: tutti la paragonano al passato, e lei, troppo debole e vigliacca per reagire, incassa tutto con un sorriso di circostanza, mentre dentro cova. Che sollievo scoprire la verità. Che gioia perversa deve aver provato scoprendo chi era davvero Rebecca. Se prima l’ammirava, la temeva, ora la detesta, peggio, la commisera: lei è davvero l’unica capace di stare vicino a Maxim, tollerando per amore suo tutto, anche abbandonare Manderlay. Il romanzo, infatti, inizia con un incipit di grande impatto, che si colloca verosimilmente diverso tempo dopo rispetto gli eventi centrali nel romanzo: la donna sogna Manderlay, quel luogo ammantato di mistero e di dolore che appartiene al loro passato.

La caratterizzazione psicologica della protagonista è dettagliata: la sua mente, la sua personalità, si offre al lettore portandolo con sé, un invito a scendere nei meandri emotivi, spesso logoranti, di questa giovane donna, nelle sue paure e nelle sue paranoie. Manderlay dal canto suo non è solo un luogo, figura su sfondo, ma è cosa viva, concreta, con la sua bellezza a tratti cupa e a tratti rigogliosa proprio come la natura che la circonda. Giardini e mare, nuvole e pioggia, odori e fiori: l’autrice non tralascia nulla di questo paesaggio che si mescola alla vicenda, le cui atmosfere contribuiscono a quella sensazione di mistero che serpeggia tra le pagine.

Quasi specularmente, mentre la protagonista, i cui più intimi pensieri saranno messi a nudo per il lettore, rimarrà anonima, senza nome, Rebecca, grande assente dalla scena fisica del romanzo, ha un nome ingombrante a partire da quel segno grafico trovato sul libro di poesie che – sbadatamente?- Max dona alla voce narrante. Quella R calcata d’inchiostro, prende la connotazione di un’altezza: e se c’è un alto, deve esserci anche un basso, pensa la protagonista. Il passo successivo è considerare se stessa come l’opposto di Rebecca, manchevole, carente, bassa, piccola, insignificante. Nella magione, il tocco della prima moglie sembra perseguitarla dagli angoli di uno scrittoio, dalla carta da lettera: la nostra protagonista sembra sentirsi sempre un’intrusa, sbagliata al posto sbagliato, mentre Rebecca – lei sì che ci sapeva fare, brillante, bella, elegante, raffinata, giusta. Ma sarà davvero così? Tra mistero e gotico, l’autrice ci regala un romanzo perturbante sulla gelosia, sull’amore, sul possesso, sulle relazioni: calato perfettamente nel contesto dell’epoca, dove le apparenze contavano più della verità del cuore e dei sentimenti, dove bello equivale a perfetto, dove l’etichetta è tutto e la forma prevale sulla sostanza, il romanzo conserva intatto il suo fascino e mi ha coinvolta, complice la scrittura competente, accurata, particolareggiata, dell’autrice, capace di descrivere l’intimità della fragilità umana e dei sentimenti, e la natura in ogni sua più piccola sfaccettatura.

Condividi:

Leave comment

Your email address will not be published. Required fields are marked with *.