Tutti i giorni

Tutti i giorni

Buongiorno, lettori! Oggi vi parlo del romanzo Tutti i giorni, scritto da Terézia Mora (traduzione di Margherita Carbonaro) ed edito da Keller Editore, che ringrazio per la copia.


Il suo nome è Abel Nema. L’hanno trovato in fin di vita appeso a testa in giù in un parco cittadino. È un uomo bello, silenzioso e capace di parlare perfettamente dieci lingue senza tradire il suo accento. Si dice che sia un genio, ma a cosa serve esserlo se la tua vita è cambiata così tanto che nessuno è più in grado di riconoscerti, e nemmeno tu sai più qual è il tuo posto nel mondo? Tutti i giorni di Terézia Mora, salutato in Germania come uno dei casi letterari più importanti degli ultimi anni, ci porta alla scoperta di un personaggio unico, iconico, quasi biblico, di cui sappiamo poco. Sappiamo che Abel Nema è fuggito da una guerra civile, da un paese che non esiste più, e che è approdato nella città occidentale di B. dove vive a contatto con un’umanità che gli somiglia: musicisti balcanici, bande di ragazzini rom, ma anche la dolce Mercedes – che lo sposa con l’intento di salvarlo – e il suo bizzarro bambino Omar che ha rinunciato a un occhio in cambio della saggezza…


In un sabato mattina d’inizio autunno, tre donne trovano un uomo appeso a testa in giù in un parco cittadino. La figura ricorda un uccello, forse un pipistrello vestito di nero, eppure, ha qualcosa. E questo qualcosa, lui, Abel Nema, se lo porta dietro da sempre. Una sorta di attrazione ancestrale: lo sguardo, forse? Tra il grigio e il violetto. O le mani, o il candore della sua pelle, o la sua aria trasognata e da eterno adolescente con la tendenza a smarrirsi per le strade della città. Qualunque cosa sia, Abel non si può definire propriamente bello, eppure è gradevole. Pagina dopo pagina, il lettore è chiamato ad osservare la vita di quest’uomo che si dipana tra l’abbandono paterno e la fuga, dolorosamente inevitabile, dal suo paese natale: la guerra lo rende disertore e, privo di documenti, con un indirizzo scritto dalla madre Mira arriva a B., enigmatica e caotica città in divenire. Abel, dal nome strano, incontra la vita e i suoi personaggi, qualcuno fa una breve apparizione sul palcoscenico di Abel, qualcuno vi resta incistato, qualcuno ritorna, in un complesso affresco caratteriale che oscilla tra ironia e delirio.

Abel è l’uomo del ritardo: è in ritardo alle proprie nozze con Mercedes, è in ritardo al divorzio con la stessa. Cosa ha legato queste due esistenze? Cosa le ha divise? Come un’archeologa, ho scavato nel passato: il loro primo incontro, l’assenza e il recupero. E’ amore il loro? Mercedes, che sceglie sempre i balordi, come l’accusa Erik di lei disperatamente innamorato, che ha amato e perduto, ma che dalle relazioni burrascose ha sempre portato con sé qualcosa, come dirà lei stessa: un figlio, Omar, incredibile piccolo saggio, un manoscritto. Di Abel cosa si porta? Un matrimonio in dissolvenza, una foto rubata al parco, un bacio stampato sul dorso di una mano candida, un bianco accecante che nonostante tutto diviene desiderio, stampella, bisogno. E’ questo allora l’amore? Comparire nella vita altrui al momento giusto, sparire e tornare, in un ciclo continuo. Mercedes delusa, illusa da quelle chiavi che aprono la toppa della sua casa. Ma cosa sa lei di lui? Abel che delude, ineffabile angelo nero che non si concede mai del tutto, asserragliato nei tormentati ricordi del passato, chiuso in lingue che possiede ma non abita.

Sembra uno così normale, disse Mercedes anni dopo, per questo ci vuole un pò di tempo per accorgersi che in realtà lui attrae come un magnete tutte le cose strane, ridicole e tristi.

Quando arriva a B., è solo, di una solitudine profonda comprensibile soltanto da chi, come lui, sa che non ha più una casa a cui tornare: è senza più una patria, senza più documenti, quasi senza identità. Ma questo non è liberatorio, non del tutto. Abel raccatta un lavoro, un posto letto, e inanella una serie di amicizie, se così possono definirsi, sui generis, che narrano di una multiculturalità disarmante e folle. Konstantin, Carlo, Kinga, Jonda, Danko. E ancora Tibor, Mercedes, Kontra, Andre. Vite che si intersecano, si sovrappongono. Vite in movimento, che rubano, che cercano di sopravvivere tra affitti da pagare, musica e droga, sullo sfondo di una politica repressiva e dura.

Perciò tutto quello che dice, come posso spiegarmi, è senza luogo, terso come non lo si è mai sentito articolare, niente accento, niente tracce di dialetto, niente – parla come uno che non viene da nessuna parte.

Un fantasma reale, sembrerebbe, spezzato, ricurvo, determinato nei suoi studi al laboratorio linguistico, errabondo frequentatore di strade in cui smarrire la via, incredibilmente capace di attirare guai anche solo con i suoi silenzi. Vaga in luoghi dove poter essere se stesso e accarezzare quella diversita’ celata e oppressa.

Dove va la mente di Abel quando tace? Che storia tracciano i suoi sogni? Le sue paure? Inconoscibile, inafferrabile, mutevole, Abel è un protagonista che stupisce e affascina con i suoi “Non lo so”, fino al finale in cui prima si denuda e poi tutto cambia, ancora. Trova pace, Abel?

L’ autrice ritrae la follia vitale e vorticante dell’umanità, piccoli flussi quotidiani che aprono spiragli di infinito, su tutte le vite possibili. La parola è frammentata, il discorso si interrompe e riprende: passato- presente, io-mondo, pensiero-azione, non hanno un confine netto, una cornice univoca all’interno della quale, collocati, trovano un significato univoco. Sta al lettore, alla sua attenzione, alla sua sensibilità, seguire la rotta delle parole, che diviene quindi una sua rotta, specifica e individuale. Chi parla, chi ascolta, chi pensa. Chi cerca il proprio posto sullo sfondo della guerra e della ricostruzione. Chi cerca la propria voce, la propria lingua per dare forma al suo mondo interno. La narrazione un flusso di coscienza estremo in cui chiunque narra, parla, racconta, si mette a nudo: anche i dialoghi sono destrutturati, una- tante- tutte le voci. 

Chi è davvero Abel? La sua identità si diffonde come la scrittura dell’autrice, si perde nella dimensione del passato fatto di guerre, di silenzi, di scelte, di istantanee che immortalano una festa o un viaggio in treno. E’ nei dettagli che Abel si fa riconoscere: conosce dieci lingue, non ne parla nessuna. Le conosce al punto da averle masticate, da averne piena la botta, i denti tinti di nero, da averle ingoiate. Ma le ha digerite? E’ capace di tirarle fuori in forma elaborata? Chiede pardon, ha la nausea viaggiando in macchina. E sullo sfondo lo straniante senso di solitudine che nasce dalla diversità, dalla condizione di stranieri, destinati ai margini; il sogno di un ritrovamento, di un ricongiungimento e l’illusione di un amore impossibile, anzi, di amori impossibili, quelli di Mercedes e di Abel stesso.

Onirico e cinematografico, lo stile dell’autrice oscilla tra addentrarsi ferocemente nelle intimità dei personaggi e sorvolarle come in una vista dall’altro. Un’opera che richiede sicuramente qualcosa al suo lettore, in termini di attesa e di attenzione, di comprensione e metabolismo della parola, che si satura di silenzi, di rumori, di odori. Come una regista, l’autrice orchestra e dirige scene di un’intensità disarmante, tese tra lucidità e follia. Abel tante lingue e poche parole: chi sei?

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