La chiocciola sul pendio

La chiocciola sul pendio

Buongiorno, lettori! Oggi vi parlo del romanzo La chiocciola sul pendio, scritto dai fratelli Arkadij e Boris Strugackij ( traduzione di Daniela Liberti), edito da Carbonio Editore, che ringrazio per l’invio della copia.

TRAMA

Scritto nel 1965, La chiocciola sul pendio era considerato dai fratelli Strugackij il loro romanzo più completo e significativo. La satira di una società pervasiva e opprimente, basata sul culto della forza e dell’attivismo sfrenato, è qui portata all’estremo con il “Direttorato per gli Affari della foresta”, un organismo abnorme e inaccessibile che sogna di permeare di sé l’intera vita silvana. Al contempo, uno strano labirinto fatto di visioni surreali di un mondo in sfacelo, tra zone off limits, carcasse, torbide paludi, creature mostruose attorniate da una vegetazione insidiosa e ancestrale, schiude al lettore scenari avventurosi e coinvolgenti. Carbonio presenta, tradotto per la prima volta dall’originale russo e nella sua versione integrale fino ad oggi inedita, un capolavoro dimenticato della letteratura sovietica, in cui si ritrovano echi di Saltykov-Šcedrin, Swift e Kafka: una riflessione amara e quanto mai attuale sul rapporto tra l’uomo e il Potere e tra l’uomo e la Natura.
Con una postfazione di Boris Strugackij.

C’è una foresta, parzialmente nascosta alla vista, eppure presente, viva, attraente. Richiama a sé, con la sua oscurità, quale luogo sconosciuto e selvaggio, incontrollabile e potenziale. Ma il Direttorato per gli Affari della Foresta, che la avvolge e ne viene inevitabilmente avvolto, non permette che si possa liberamente accedervi. Separati e tali devono restare. Il mondo degli uomini ligi al dovere, cerimoniosi nel loro darsi del Voi, attenti ai compiti di calcolo e ragionamento logico, inclini all’alcol come unica valvola di sfogo e determinati fermamente a distruggere quella tumescenza che rappresenta per loro la Foresta.

Protagonisti di questa storia sono due personaggi che abitano i due settori, Perec, filologo che vive nel Direttorato, e Kandid, che vive nella Foresta. Due anime antiche, entrambe per ragioni diverse, quasi estranee al mondo che abitano: sentono un’intima tensione a conoscere, ad andare per il mondo, a lasciare la strada nota per imbarcarsi in un viaggio di conoscenza e di auto-conoscenza. E per entrambi sembra essere esageratamente difficile abbandonare i propri luoghi, seppure sappiano (o intuiscano) di non appartenervi fino in fondo, sono vincolati: Kandid non ricorda la via per la Città, Perec non ha l’autorizzazione a lasciare il Direttorato. Il Direttorato vorrebbe silenziare la scomoda Foresta con i suoi mezzi, cancellarla, senza però spiegare le motivazioni di questa paura folle e ossessiva che nutre verso di essa, la quale viene descritta come infingarda, evasiva, instabile e simulatrice. Verrebbe da chiedersi se il Direttorato voglia raderla al suolo perché elemento instabile o se voglia in realtà appropriarsi della foresta, e nel secondo caso, perché? Anche in questo caso, come in tutto il testo, la Foresta evoca qualcosa di differente: un simbolo che rimanda all’instabilità della parte selvaggia, una sorta di conflitto tra razionale e irrazionale, con il primo che ampollosamente cerca di irretire il secondo e controllarlo mediante ferree regole. Dal canto suo, la Foresta è il luogo dei morti viventi, di una palude putrescente e puzzolente, che brucia, arde, chi vi ci finisce nulla. E’ il luogo della dimenticanza: Kandid non ha memoria di sé, del suo passato, legato e connesso all’esistenza stessa della Foresta.

Le vicende parallele dei due protagonisti comprendono viaggi onirici, simili quasi a visioni o deliri, riflessioni filosofiche e morali sull’essenza del cose, al punto che definire e circoscrivere gli argomenti di cui il libro parla, è arduo. Si parla di vita, di conoscenza, di amore, di morte, ma gli autori lo fanno con un linguaggio che è quasi un codice da decifrare.

Sicuramente la tematica sociale pervade il romanzo in maniera sottile e multiforme: mi ha colpito un passaggio in cui Perec si interroga sul proprio ruolo nel mondo e nella società in cui vive, il senso profondo del suo vivere, del suo lavoro assurdo e di fatto inutile.

“Ma che razza di ragnatela è questa!”, “Che sarei per loro, una mosca?”.

Perché Perec disturba così tanto il Direttorato? Devia forse, con il solo fatto di porre e porsi quesiti, dalla norma imposta? C’è una grande tristezza e solitudine nel personaggio di Perec, che brama di essere parte della sua società ma viene respinto, isolato da una incomunicabilità sempre crescente: quelli che considera amici, gli raccontano bugie, lo manipolano.

Sono un uomo come voi, e come voi ho diritto di sapere! Permettetemi di ascoltare!

Impotente e inascoltata, la voce di Perec riecheggia di altre voci, di altri diritti violati e calpestati. Viene il sospetto che Perec sia solo un personaggio di una commedia surreale, attore inconsapevole, l’unico a non sapere della recita in atto. Nessuno fornisce a Perec risposte chiare alle sue domande, anzi, i dialoghi divengono paradossali e sembrano una presa in giro di cui gli altri attori rideranno dietro le scene, e Perec può solo sollevare le spalle, rassegnarsi a questi discorsi apparentemente senza senso e sperare di poter andare via.

Diviene un mantra il suo, a cui risponde l’eco di Kandid, che vuole arrivare alla città, che vuole andare via. La fuga come meccanismo di salvezza, come spiraglio di speranza: cosa vogliono cercare al di fuori della Foresta e del Direttorato?Chi è Kandid, chiamato Muto? Da dove proviene, quale la sua storia?

Sia il Direttorato che la Foresta convergono sulla visione della donna, relegata a parziale accessorio, soggetti a cui non bisogna prestare attenzione, contenitori vuoti. Kandid si unisce, nella Foresta, a Nava, giovane donna che non riesce ad avere figli e che rivela all’uomo di non volerne, contrariamente alle regole sociali imposte; ma il guizzo di Nava non significa indipendenza, anzi, la ragazza viene descritta come una sorta di mosca ronzante, borbottante e fastidiosa. “Amiche Gloriose”, “sinistre donne-amazzoni, sacerdotesse della partenogenesi“, alcuni dei modi in cui Kandid, abbandonandosi ai suoi pensieri, dipinge il genere femminile. La donna, allora, è simile alla Foresta: un virus. E il peregrinare, fisico e mentale, di Kandid continua incessante, tra Possessione, Formicai, Canneti e Legge di Natura.

Nella Foresta c’è una rudimentale organizzazione sociale, che pone l’accento sul non si deve, che si riunisce in assemblee plenarie in piazza, luogo in cui nessuno deve dormire. E’ un posto selvaggio e ancestrale, popolato da creature spaventose, in cui la natura sembra essersi rivoltata contro l’uomo e si è resa ambiente inospitale; alberi salterini e paludi marcescenti, formiche, morti viventi, cosa è successo? Si intuisce la mano dell’uomo, con le sue macchine, che ha sradicato e sporcato la Natura, con cui ora deve comunque convivere. Chi vi abita sono personaggi strampalati e apparentemente folli, come l’ Anziano che parla senza mai arrivare a comunicare, lo Zoppo, Coda, Pugnolesto, il Martire Rancoroso, e tutti gli altri: una sorta di mondo primitivo e animalesco in cui l’unico ad essere mosso da curiosità sembra essere Kandid.

Una satira dall’ironia pungente, che fa sogghignare il lettore, e invita al ragionamento, che parla di libertà, quel moto intimo dell’anima che anela al contatto: Perec sogna un mondo in cui possa muoversi senza che nessuno gli chieda i documenti o esiga una nota personale in triplice copia con due serie delle mie dieci impronte digitali , un mondo in cui l’uomo non sia schiavo di sostanze e di regolamenti, che si possa dissentire da ideali altrui e venire comunque accettati. Perec si chiede se sia possibile desiderare così tanto.

Un testo complesso, a tratti oscuro, a tratti pieno di riflessioni sul senso personale dell’esistenza e dell’economia della vita; visionario e surreale, mi ha lasciato la sensazione di aver colto solo una parte della storia e degli intenti degli autori. Ho segnato tanti passaggi nel testo, specialmente quei flussi di coscienza introspettivi propri sia di Kandid che di Perec, in cui si interrogano sul loro rapporto con la Foresta, con l’autorità, con l’Altro.

Nell’immaginario prolifico di Perec, la Foresta è entità viva e pulsante, capace di pensarsi, ed è quindi un essere senziente; il filologo si interroga lungo anche sul rapporto tra uomo e macchina, sottoponendo al suo lettore interrogativi etici e morali di un’attualità disarmante, a testimonianza del fatto che certi argomenti sono sempre fecondi.

Tra criptici messaggi, rimandi culturali e allegorie potenti, un romanzo che racconta di un’allegoria sociale, di un’umanità alla deriva, popolata da creature mostruose, echi e rimasugli di fantasmi del passato.

Si parla tanto di macchine! Noi siamo tutti delle macchine. Solo che siamo delle macchine difettose o mal regolate.

Condividi:

Leave comment

Your email address will not be published. Required fields are marked with *.