Le stelle si spengono all’alba

Le stelle si spengono all’alba

Buongiorno, lettori! Oggi vi parlo del romanzo Le stelle si spengono all’alba, scritto da Richard Wagamese ( traduzione di Nazzareno Mataldi) ed edito da La Nuova Frontiera che ringrazio per la copia.


Quando il sedicenne Franklin Starlight giunge al capezzale di suo padre Eldon, trova un uomo segnato dall’alcolismo. Sentendo che la sua fine è vicina, Eldon ha chiamato il figlio – che non vede da anni –
perché lo aiuti a esaudire un ultimo desiderio, quello di essere sepolto come un guerriero Ojibwe. Franklin all’inizio esita, perché quell’uomo che ha davanti per lui è uno sconosciuto, ma poi decide di assecondarlo e così padre e figlio iniziano un difficile viaggio attraverso le bellissime e selvagge foreste del Canada per giungere al luogo adatto alla sepoltura. Avanzano a piedi e a cavallo e mentre si avvicinano alla meta ripercorrono le loro difficili vite e riscoprono la comune eredità delle origini indiane. Durante questo percorso iniziatico Eldon svelerà a Franklin un mondo che non aveva mai visto e una storia che nessuno gli aveva mai raccontato. Le stelle si spengono all’alba è un romanzo appassionante con un finale commovente, che ci racconta del coraggio di un ragazzo che ritrova suo padre e di una cultura, quella degli autoctoni del Nord America, che vede nella natura una forza in grado di curarci.


Ci sono cose che a volte si rompono. Quando succede nel mondo, il più delle volte si possono aggiustare. Ma quando succede dentro una persona, è più difficile ripararle. Eldon è conciato piuttosto male dentro.

Assenze, parole che si incagliano in fondo alla gola per anni, parole che diventano spesse, hanno un loro corpo, un loro peso che si riesce a mandare giù solo bevendo, e bevendo ancora fino a stordirsi. Parole che racconterebbero storie e invece restano lì, sulla punta della lingua, sul fondo di un bicchiere da riempire, nelle viscere che scoppiano e marciscono, nella polvere dei ricordi. Eppure, arriva un punto nella propria vita in cui quelle parole devono venire fuori perché il tempo a disposizione non è infinito e la data di scadenza diventa più ingombrante e vicina, quelle parole devono diventare la storia che resta, altrimenti cosa rimane, dopo?

Questo libro mi ha conquistata, incantata per la prosa lirica, magistrale, vivida e corposa: ogni parola ha il suo posto e si prende il suo tempo per tessere un quadro che già rapisce per la precisione paesaggistica. Sono lì. Sono lì con Franklin, indiano, che a sedici anni viene definito duro, che ama la natura in un modo viscerale e simbiotico, riconoscendo in lei un’entità da rispettare e pregare; cresciuto con questa figura spettacolare che è il vecchio, un uomo che lo ha istruito come può sulle cose indiane pur non essendolo e sulle cose della vita, quelle che sa e padroneggia. Franklin impara a sparare, a cacciare, a seguire le tracce e ad ascoltare il mondo incredibile che lo circonda, trovando in esso la sua giusta dimensione; non si sente a suo agio in città, a scuola, ma lì, nei boschi, negli spazi sconfinati, in groppa alla sua cavalla, si sente libero, completo. Contempla ciò che ha attorno e la penna dell’autore è talmente realistica che i profumi, gli odori, le sensazioni, trapassano la pagina e arrivano nette al lettore. Stessa cosa fanno questi silenzi, queste assenze che gravano nella vita di Franklin e che lo rendono questo ragazzo-uomo che è; maturo, Franklin ricorda la sua infanzia quando ingenuamente credeva alle lettere del padre ubriacone e correva da lui per raccattare un pò di amore. Ma era amore quello? Non lo sa, quello che conosce bene è la rabbia per un padre che si faceva vedere una volta all’anno, sempre ubriaco o sul punto di esserlo, che rovinava tutto e lui, stupido ingenuo ci sperava ancora. Come può non sperare in quelle briciole? E come può, ora, non rispondere alla sua chiamata, forse l’ultima?

A me sembra che la verità di quello che siamo è nascosta dove non si può vedere. Penso che quando si avvicina la morte abbiamo tutti diritto a ciò in cui crediamo.

Suo padre, Eldon, gli sembra messo male, malissimo: potrebbe voltargli le spalle, fregarsene, ma non sarebbe Franklin, e in fondo al cuore c’è quella curiosità più che legittima di sapere cosa vuole quell’uomo da lui, di avere quelle risposte che solo lui può dargli. Quanto gli costeranno queste risposte Franklin ancora non lo sa quando accetta di portare il padre a morire tra le montagne degli Ojibwe come un guerriero. Disprezza l’uomo, come potrebbe non farlo, ma deve sapere. Inizia un viaggio struggente, con un uomo alla fine dei suoi giorni che ripercorre la sua storia per consegnarla a quel figlio che non potrà mai più conoscere, un uomo roso dalla vergogna, dalle scelte sbagliate, dal dolore e dal rimpianto. Vuole il perdono? Vuole l’assoluzione? Franklin non sa se può dargliela, non ora, ma può ascoltare, può fare domande, può tenere tra i denti questa storia, la sua storia, perché è l’unica cosa che il padre potrà mai dargli. Ed è una storia di guerra, di perdita, di amore e di angoscia, di un vizio maledetto che impedisce ad Eldon di pensarsi come “abbastanza” per chiunque: è una rovina che distrugge tutti coloro che gli stanno vicino, perfino la bellissima Angie che ama con tutto se stesso. Ma l’amore non è salvifico come lo è stato per Bunky, no, l’amore qui lo distrugge e devasta perché porta a galla un’inadeguatezza profonda e ancestrale, desideri che non si era mai permesso di avere, riletture delle proprie scelte che non può fare perché se Angie scoprisse davvero chi è, come potrebbe amarlo?

«Vorrei riavere i miei anni» disse suo padre. «Vorrei riaverli tutti. Ogni singolo anno che ho sprecato, ogni singolo anno da ubriaco. Ma non posso riaverli indietro. So che non c’è nessuna sorta di eredità o come si chiama, ma tutto quello che mi rimane adesso è la sua storia»

Una storia che ho divorato, che mi ha commossa e devastata: quanto è difficile comunicare agli altri le proprie emozioni, i propri sentimenti, e quanto è difficile accettarsi, perdonarsi? E’ questo forse che Eldon cerca alla fine del viaggio, un’espiazione, un autoperdono attraverso il racconto di una vita di perdite, di lutti, e lui, incapace di affrontarli ha ripiegato su una bottiglia. Un padre e un figlio, che apparentemente non hanno nulla in comune, uno in debito con l’altro, un debito insaldabile, eppure così vicini, così umani e fragili, così commoventi. Franklin coraggioso, cresciuto tra i campi e con un fucile in mano che non capisce gli atti giovanili del padre e lo taccia di codardia, Eldon devastato, tormentato, perché nel figlio ritrova il sentiero dei propri pensieri, quelle voci che cerca di tacitare con l’alcol per dimenticare chi è stato. Se si fossero parlati prima, cosa sarebbe successo? Se Eldon non fosse stato così spezzato e avesse guardato quel neonato per quello che era, chi sarebbero ora loro due? Domande e ipotesi che si perdono nel silenzio di una montagna che li accoglie. Una penna profonda, intensa, poetica che ci racconta vite ai margini e una natura travolgente, selvaggia e libera.

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