Il fuoco di Pandora

Il fuoco di Pandora

Buongiorno, lettori! Oggi vi parlo del volume Il fuoco di Pandora, scritto da Matteo Strukul ed edito da Solferino, che ringrazio per la copia.


Nella notte che regna sui villaggi degli uomini, Pandora ricorda. Si è esiliata dall’Olimpo per rimediare al dolore scatenato sul mondo dall’apertura del vaso a lei affidato, la trappola di Zeus. Si è data una missione: portare agli umani il fuoco, i suoi usi e le sue storie, dalla magia della Fenice alla sfortunata corsa di Fetonte sul carro del sole, alla battaglia di Ecate, Signora delle Fiaccole, contro il gigante Clizio. Ma quello tra le donne e il fuoco è un legame che non finisce con Pandora. Continua con Pentesilea, amazzone guerriera, forgiata nelle fiamme, perseguitata da una maledizione e destinata ad affrontare Achille sotto le mura di Troia. Con la pira funebre che conclude la vicenda di Didone, regina orgogliosa e abbandonata che si dà la morte dopo la partenza di Enea. Con il diadema e la veste intrisi di fiamme che consumano Glauce, la nuova moglie di Giasone, doni mortali di Medea ripudiata. Generose e vendicatrici, sagge e impetuose, Matteo Strukul costruisce in questo libro un vero e proprio pantheon di capostipiti femminili, a cui dà voce di volta in volta per ricostruire i miti fondativi della nostra cultura da una prospettiva insolita e coinvolgente. Un racconto storico appassionante che fa rivivere il mondo antico e le sue protagoniste con la potenza di una narrazione senza tempo eppure moderna, capace di accendere gli animi come il fuoco illumina il buio.


Magistralmente introdotto da Maria Grazia Ciani, l’autore forgia una sua genealogia del fuoco, che nasce da esso e ad esso torna, e lo fa attraverso quattro figure femminili collegate a questo elemento: Pandora, Pentesilea, Didone e Medea. Come sottolinea l’autore stesso, “nozione e finzione” si fondono per raccontare un canto nuovo, un “canto rapsodico” a cui fa eco quello delle sue protagoniste, voci cantrici di storie che parlano del mito e travalicano epoche diventando immagini di donne attorno a fuochi eterni, mutevoli in età e collocazione geografica, ma portatrici di quel mistero ancestrale e primordiale tutto al femminile, cantrici della duplice natura del fuoco che è quella della vita stessa.

Pandora, il cui nome è divenuto “sinonimo di rovina“, matriarca del culto primordiale del fuoco, quell’elemento che Prometeo regalò ai mortali attirandosi la vendetta del potente Zeus; e quale vendetta migliore che un essere perfetto, infuso di bellezza, malizia, grazia, seduzione e intelligenza se non Pandora stessa, prima tra gli uomini. Rovina è la sua eredità, almeno crede lei quando apre il vaso famoso e riversa il male nel mondo, piaghe per quei mortali ma anche voce di speranza. Potrebbe morire schiacciata dalla colpa e invece decide di andare villaggio per villaggio per aiutare i mortali a comprendere quel fuoco importantissimo e pieno di potenzialità. Il suo racconto è nostalgico, nasce dal senso di colpa per qualcosa più grande di lei, mero strumento, pedina in mano alle divinità eppure incapace di perdonarsi, di allontanare da sé la coppa della pena. Se il fuoco di Pandora nasce dalla speranza di lenire qualcosa che ella stessa non poteva prevedere, quello di Pentesilea nasce dalla colpa, logorante e distruttiva al pari di quel fuoco da cui discende la sua stirpe, per quello che ha fatto a Ippolita; entrambe si divorano per qualcosa che non era in loro potere controllare, Pandora creata per uno scopo e Pentesilea anticipata dalla sorella con cui è sempre stata in competizione. Il fuoco con la sua natura duale, protettrice e distruttiva, riecheggia la natura umana stessa, fatta di luce e buio, di freddo e calore, di potenza distruttiva e serena speranza. Quella che anima Pentesilea è una ” sete di annientamento“, sostenuta dalla dea della discordia e profusa nella sua presenza alla guerra di Troia, con la speranza di venire uccisa per espiare la propria colpa, intimamente convinta che nell’Ade non la possa seguire e possa raggiungere un’ idilliaca pace. L’urlo di Pentesilea, di rabbia e odio, rancore e dolore, non verrà ascoltato ma anzi nell’Ade, l’ira delle Erinni sarà l’ennesimo fuoco ardente destinato a non spegnersi mai, lei che ha affrontato a viso aperto Achille il quale non l’ha pesata degna di onori e omaggi. Lei che voleva tornare al fuoco-madre, purificatore. Per Didone, regina tradita dei Fenici, il fuoco è il simbolo dell’amore per Enea, quell’amore che l’uomo “piccolo, infido, reticente, empio” ha rinnegato, ripudiato, calpestato. Didone fa preparare una pira, un incendio come quello di Troia perché nel fuoco distrugge tutto ciò che era appartenuto ad Enea ma attraverso esso si fa giustizia: solo lei è artefice, responsabile, del suo dolore. Non un uomo, nemmeno uno come Enea capace di sedurre con racconti di morte o con un passato affine, da naufraghi. Anche Didone, come Pandora e Pentesilea, sente di non aver avuto scelta innamorandosi di Enea, colpita da Eros capriccioso che la relega al suo destino di fuoco. “Sorella e amante“, sedotta dal racconto della caduta nefasta di Troia, Didone che poteva decidere del fato di Enea e delle sue poche navi, ne resta affascinata e si tramuta da “regina a schiava“. L’ultima voce, ma non meno importante, è quella di Medea, figlia del re dei Colchi e di quella Ecate già nominata nelle storie precedenti, temuta e rispettata in egual misura da Zeus stesso; Medea si presenta al lettore come “una delle custodi di un’inespugnabile fortezza sapienziale“, che altro non è che il sapere derivante dallo studio di “erbe e tecniche curative“. Per questo è temuta: il suo sapere è inconoscibile, soprattutto dagli uomini che per questo lo bollano come “magico“. Il suo spirito e la sua conoscenza saranno l’eredità che Medea lascerà alla sua stirpe al femminile, condannata o destinata al fuoco, all’incomprensione. Medea rappresenta pienamente quegli intenti dichiarati dall’autore nella sua premessa: una rilettura di una figura femminile succube di una cultura maschile, tutt’altro che dimenticata. Medea si ribella, come la sua ava Circe, allo status quo delle donne del suo mondo: scardinando i rapporti gerarchici rigidi e maschilisti, lei fa paura. Non conta più quanto sia brava a guarire e curare, anzi quelle doti vengono lette come capacità sinistre e pericolose.

Lo stile dell’autore si adatta perfettamente al racconto del mito, riletto e reinterpretato, certo, con rispetto, come si evince dall’attento elenco delle fonti da cui ha attinto; la prosa è elegante, scorrevole, affascinante, e ha rinnovato il mio amore per il mito greco, un fuoco sempre acceso. Celebrare il fuoco, elemento ammantato di mistero e di potenza, attraverso il racconto che incrocia il mito, attraverso donne che parlano in prima persona e si aprono, si confessano, espiano le proprie pene mostrando forza e fragilità, custodi del fuoco, “fiaccole di fiamma“.

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