Promesse

Promesse

Buongiorno, lettori! Esce oggi il romanzo Promesse scritto da Bryan Washington ( traduzione di Emanuele Giammarco) ed edito da NNEditore che ringrazio per la copia.


Mike ha origini giapponesi e fa il cuoco in un ristorante fusion a Houston, Texas. Benson è nero, ha una famiglia ingombrante e fa il maestro d’asilo. Mike e Ben vivono insieme da qualche anno, ma non sono più sicuri di amarsi, nonostante l’affetto, il sesso, l’intimità conquistata a fatica. Quando la madre di Mike, Mitsuko, arriva a Houston in visita per la prima volta, Mike decide di partire per il Giappone: suo padre Eiju, che ha abbandonato la famiglia da anni, ha una malattia incurabile. Così, mentre Ben e Mitsuko si trovano costretti a condividere spazi e abitudini, in una strana convivenza che si costruisce in cucina, nella cangiante città di Osaka Mike si confronta con il padre e la sua eredità. Raccontato a turno da Benson e Mike, tra ricette giapponesi e comfort food,Promesse è una commedia dolceamara che parla di famiglia, tradimenti e scelte di vita. I personaggi di Bryan Washington sono eroi impacciati, alle prese con una nuova epopea delle relazioni, dove i sentimenti e i desideri non riescono a passare dalle parole ma dai piccoli gesti di ogni giorno, che hanno il potere di trasformare l’insofferenza in tenerezza, il rancore in compassione, e aprire il cuore alla felicità.


Benson e Mike sono una coppia omosessuale che vive a Houston: il primo, un giovane uomo di colore, lavora con i bambini, è una specie di baby-sitter pomeridiano, proviene da una famiglia abbastanza facoltosa, che, però, non ha mai apertamente accettato la sua omosessualità; Mike è giapponese, vive in America da molti anni e non torna a Osaka, la sua città, da tanto tempo, si arrabatta in diversi lavori tutti accomunati dalla cucina e non ha alcun rapporto con il padre da quando l’uomo ha abbandonato lui e la madre, Mitsuko, per tornare a casa, una ferita che Mike non ha mai superato. Entrambi hanno famiglie complesse, rapporti con i genitori altrettanto complicati da abissali distanze concettuali e comportamentali, ed entrambi sono cresciuti respirando violenza, seppure in forme diverse. Loro stessi sono inclini a scoppi di violenza, a “mettersi le mani addosso” salvo poi riappacificare ogni discussione e litigio con il sesso, fisico, disperato, fatto di graffi e di corpi che si scontrano più che incontrarsi, fatto di piacere e gemiti, di pance e pelle. Dopo qualche anno di convivenza, i due sono perfettamente consapevoli di essere a un bivio nella loro relazione ma al tempo stesso sembrano rimandare, procrastinare, l’argomento, trascinandosi quindi in qualcosa che “assomiglia” a una coppia senza più somigliare però a chi erano loro due prima; ci sono segreti tra loro e silenzi sottaciuti che entrambi sanno interpretare ma non vogliono farlo, scegliendo di guardare altrove almeno fino a quando Mike si fa portavoce della rottura. Una telefonata: suo padre sta male. Proprio quel padre con cui non parla da anni e di cui Benson ha scarsa considerazione sulla base dei racconti del compagno, proprio lui. Mike deve andare a Osaka, e in un cambio da staffetta, a Houston arriva sua madre, Mitsuko.

La storia è divisa in tre parti, ognuna narrata in prima persona da Benson e Mike e si comincia proprio con la partenza di Mike e il punto di vista del compagno, al limite dell’abbandono, in un piccolo appartamento, con la madre giapponese di Mike, una sconosciuta. Il loro approccio è fatto di imbarazzo e di occhiate, di domande che pesano come macigni ma che non vengono formulate e restano sospese nel riso che Mitsuko prepara, negli accenni sminuzzati di conversazione che Benson prova ad avviare. Lui deve gestire anche la rabbia per la partenza improvvisa di Mike: cosa significa per la loro storia? Tutto è rimandato all’ipotetico ritorno di Mike ma nel frattempo cosa deve farne Benson di loro due, della vita che incombe, di Mitsuko? Alterando presente e passato, Benson ricorda i primi approcci tra lui e Mike e anche la sua storia personale e famigliare, il suo passato di sesso indiscriminato, la relazione con sua sorella, il suo lavoro con i bambini dove sembra essere l’unico a comprenderli; e proprio qui conosce Omar, psicologo e fratello di Ahmad, un ragazzino complicato. Qualcosa li avvicina, li attrae: cosa rappresenta Omar per Benson? Una possibilità? Un passatempo?

La parte centrale del romanzo è dedicata a Mike e al suo ritorno ad Osaka, un percorso che l’autore traccia con una prima persona stupefacente, capace di dosare dialoghi – flussi di coscienza e silenzi: perché Mike decide nonostante tutto di tornare? Eiju non è stato e non è un padre facile, anzi, sembra quasi ostacolare la presenza del figlio, relegandola al ruolo di aiuto al suo bar, una figura inopportuna ma necessaria, eppure, pagina dopo pagina, tramite lo sguardo di un figlio che osserva il peggioramento del padre, si delinea un rapporto ben più profondo. La potenza suggestiva dell’autore è tale che alla fine della storia, per me, Mike e Benson erano personaggi reali, che avrei voluto abbracciare, consolare: a Mike avrei detto, sono contenta che tu sia andato ad Osaka, sono contenta che tu sia rimasto fino alla fine e che tu abbia trovato quella fotografia. Nel periodo che Mike trascorre ad Osaka anche lui ricorda il suo passato, la sua infanzia, le liti tra i genitori, la fuga in America e il ritorno di sua madre in Giappone, vissuto come un abbandono, l’ennesimo della sua vita, il rapporto con il suo corpo e con la sua omosessualità. E ad Osaka sperimenta la rabbia, l’impotenza e la frustrazione dinanzi all’idea della morte di una figura che non sapeva nemmeno di volere ancora nella sua vita, un uomo con cui è stato difficile vivere e convivere, ma altrettanto difficile sarà vivere dopo la sua morte; il lascito ereditario di Eiju è una promessa e una condanna mascherata nella solo apparente semplicità dell’affitto di un bar pagato per sei mesi, è uno spiraglio, una possibilità di ritorno, ma cosa lascia Mike a Houston? Cosa gli sta offrendo suo padre: una fuga o finalmente il riconoscimento di un’autonomia a lungo procrastinata?

Una sera, eravamo immersi in quella solita routine. Io stavo passando lo straccio. Eiju puliva il bancone.

Non sei più un cazzo di ragazzino, ha detto.

Sono il tuo cazzo di ragazzino, ho detto io.

Ad Osaka, Mike deve fare i conti con tutta una serie di persone che attorniano suo padre e che ne hanno una percezione totalmente diversa; non solo, Mike scopre qui un Eiju che sa sorridere e sa essere di compagnia, che con gli altri è diverso, più tollerante. Perché non è stato così anche con lui? Fisicamente così simili al punto che se anche Eiju non dice a nessuno chi sia davvero Mike non servono agli altri parole per capirlo, ed è nel corpo martoriato dalla malattia che Mike si ritrova figlio, in quelle rughe che non aveva visto, in quella fragilità che non aveva considerato, uno scollamento quantomai reale e concreto tra l’idealizzazione di un figlio verso un genitore e il contingente. Mike deve fare i conti con la caducità del padre repentina, con anni perduti che ora recupera solo grazie alla sua determinazione a restare: ma perché Mike resta? Per sfuggire al fatto di dover scegliere cosa fare con Benson? Forse, all’inizio. Ma poi, giorno dopo giorno, a mio avviso, c’è un attaccamento al padre, una voglia di portarsi dietro qualcosa di lui, di non sprecare quegli ultimi momenti. Ed Eiju che ride, che prova a sorridere della morte ma ne ha una paura ancestrale e bestiale, indicibile, che piange di nascosto e che deve chiedere aiuto. Mentre Mike è li non esclude Benson dai suoi pensieri eppure nelle sue pagine sembra così concentrato sul padre, sul bar, su questa vita che poteva avere e che ha messo da parte da non potersi focalizzare oltre; ma, al tempo stesso, ha bisogno di sentire, di percepire, di toccare, di sentirsi amato, credo.

E come ci siamo arrivati a questo punto fra noi?

In silenzio, credo. I grandi eventi non sono grandi per un cazzo quando succedono per davvero.

La potenza di questa storia si annida nei silenzi frammentati, nei fotogrammi famigliari del passato, nelle mani che si toccano, nella preparazione dei piatti, in un prendersi cura quasi paventato, sussurrato, temuto, e al tempo stesso gravido di una pesantezza che sembra imporsi nelle vite di figli così diversi dalle aspettative genitoriali, anni luce altrove, presi dalle loro vite complesse e veloci, negli affetti percepiti come bagagli da sollevare e nella ricerca di identità simili a spartiacque. E’ una storia di famiglia, di relazioni, di assenze e perdite, di scelte e conseguenze narrate con una penna estremamente moderna, capace di scavare e lasciare al lettore il compito di colmare i silenzi con la propria sensibilità, una storia che si racconta negli sguardi imbarazzati e nei piccoli gesti, nei rituali e nelle liste delle cose che ama Eiju, nelle sigarette fumate e negli avventori del bar che divengono famiglia, negli incontri occasionali e nelle proiezioni genitoriali, nel processo di crescita che non smette mai e nei vincoli familiari difficili da gestire. La lingua usata è perfettamente aderente al contesto sociale di riferimento e ai personaggi creati i cui dialoghi sono spesso dei flussi di coscienza continui punteggiati di “ho detto”, ” e li è quando”, creando immagini vivide e tridimensionali degli attori in gioco ma lasciando comunque spazio al lettore per leggervi dentro altro; una lingua che si concretizza nel fare, in azioni e gesti più che in pensieri, tessendo un ritratto fatto di emozioni, di quotidianità, di ironia, di vita vissuta. La narrazione ha un suo ritmo sostenuto da paragrafi brevi simili a istantanee, a ricordi da focalizzare e su cui concentrarsi, attraverso i quali i personaggi si raccontano e si fanno conoscere pur restando, comunque, in una certa parte inconoscibili persino a loro stessi, così umani nelle loro fragilità sapientemente trattate dall’autore, fine conoscitore della materia umana.

Il momento esatto non lo ricordo. Ma è questo il punto, credo: ci portiamo i nostri ricordi ovunque andiamo, e tutto ciò che resta sono quelli che rimangono nei paraggi, ed è così che ci facciamo una vita.

Cibo, famiglia, accudimento, segreti, violenza, scelte, conseguenze, relazioni: questi alcuni dei temi che il romanzo tratta e che mi hanno lasciato suggestioni e riflessioni. Che cos’è l’amore? Come si dice, come si vive, come si affronta?

Entrambi indichiamo alle nostre spalle, sotto di noi, negli anfratti, dentro le finestre delle case che oltrepassiamo, ovunque tranne che noi stessi, anche se da allora ho capito che questa, pure, era una dichiarazione.

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