Selvaggi

Selvaggi

Buongiorno, lettori! Oggi vi parlo del romanzo Selvaggi, scritto da Katherine Johnson (traduzione di Gianluca Testani) ed edito da Jimenez Edizioni, che ringrazio per l’invio della copia.


Basato su una storia vera, Selvaggi ci fa viaggiare dall’Australia coloniale al cuore dell’Europa nel biennio 1882-83, quando tre giovani aborigeni furono fatti esibire – in lotte, danze e lancio del boomerang – davanti a un pubblico di massa nei cosiddetti “zoo umani”, spettacoli etnici molto diffusi all’epoca. Bonny, Jurano e Dorondera non furono certo i soli: si stima che, tra il 1800 e il 1958, oltre 35.000 “performer esotici” furono ammirati da un miliardo di spettatori sulle due sponde dell’Atlantico. Ma in questo romanzo, per la prima volta, l’autrice predilige il punto di vista dei presunti “selvaggi”, storicamente esclusi dai resoconti ufficiali di quanto avveniva nei giardini botanici, nei parchi pubblici e nelle esposizioni universali. Pur non potendo contare sulle testimonianze dirette dei tre giovani aborigeni prelevati dall’Isola di Fraser (la meravigliosa e incontaminata “isola dei dingo”), Katherine Johnson immagina la loro storia facendo interagire personaggi reali, tra cui numerosi scienziati interessati alle teorie della razza e dell’evoluzione umana, e altri di finzione; tra questi ultimi, Hilda, giovane tedesca che, dopo sei anni trascorsi nelle colonie australi della Corona d’Inghilterra, intraprende il viaggio insieme a suo padre (l’ingegnere Luis Müller, altro personaggio realmente esistito) e ai tre ragazzi aborigeni, di etnia batdjala, che ormai considera suoi amici. Ne risulta una vicenda al contempo appassionante e dolorosa, in cui si alternano l’euforia della scoperta, i palpiti amorosi e il senso di impotenza di fronte alle ingiustizie e all’atavica stupidità degli uomini.


E’ il 1882, Hilda, giovane donna tedesca, vive ormai da sei anni a K’gar (Isola di Fraser) in Australia, in seguito al crollo di un ponte progettato dal padre, una tragedia che lo ha spinto a “rifugiarsi” in questa terra sperduta. Hilda ricorda vagamente la terra natale, dopo la lunga traversata e i primi periodi di adattamento, lei adesso si sente parte del luogo, di questa natura incontaminata, di rituali e tradizioni, di un modo di vivere estremamente diverso da quello occidentale. Guidata dalla curiosità e dell’amore che la madre ha provato nei confronti di questa terra, Hilda è un membro attivo della comunità come sua madre, prematuramente scomparsa per una malattia, e il padre. Ama tenere un diario in cui annota ciò che le accade, i suoi pensieri e ricordi e più di ogni cosa vuole onorare la memoria della madre aiutando gli aborigeni a salvare la loro riserva; infatti, una serie di guerre li sta decimando ed è il motivo per cui, improvvisamente, il padre decide di tornare in patria. Qui, una serie di spettacoli itineranti, permetteranno ai tre aborigeni che hanno deciso di seguirli ( Bonny, Jurano e Dorondera) di avere visibilità per perorare la propria causa. Hilda non sa bene come sentirsi al riguardo: vuole tornare a casa con i suoi amici ma al tempo stesso sente di essere legata a quel luogo, l’ultimo che ha visto sua madre viva e l’unico in cui le sue spoglie riposeranno; ma se il viaggio è per una giusta causa è disposta a mettere da parte la sua malinconia. Purtroppo, sin dall’inizio, la giovane donna intuisce la complessità della questione e non è più sicura che la scelta del padre sia quella giusta per i suoi amici: esporli in questa sorta di “zoo umani” come potrà aiutarli? Ma Hilda ama il padre di un amore puro e incondizionato e si lascia guidare: tutto è pronto per la traversata che la riporterà nella civiltà, ma siamo davvero sicuri che sia così? Sin da quando salgono sulla piccola scialuppa che li condurrà alla nave deputata al viaggio di rientro, gli uomini rivolgono sguardi avidi al prosperoso seno di Dorondera, sguardi riprovevoli alla scarmigliata Hilda (che sia difettosa perché ha vissuto in intimità con i “selvaggi”?) e sguardi ostili verso Jurano e Bonny, possenti, protettivi, spaventati ma determinati a fare ciò che nessuno della loro stirpe ha mai fatto. Tutto per salvare ciò che resta del loro popolo. Se i pensieri di Hilda ci vengono raccontati in modo diretto, alla voce di un “narratore fantasma” capace di coprire grandissimi distanze e parlare con gli spiriti divini è affidata l’ipotesi di ciò che i tre aborigeni possano pensare. La loro percezione è quindi mediata, immaginata, colmata.

Il rientro in terra tedesca mette tutti dinanzi a realtà sottaciute: qui, gli amici di Hilda sono considerati alla stregua di fenomeni da baraccone, o peggio di animali selvaggi incapaci di comprendere razionalmente e per questo possono essere ingannati, insultati, offesi. A loro viene richiesta una parte per divertire un pubblico ignaro, però, di questo: la competenza linguistica che hanno, l’attenzione alla moda che ha Dorondera, la mitezza di Bonny, devono essere mascherati perché per fare soldi e divertire il pubblico devono essere “naturali”. Ma cosa significa davvero esserlo? E’ palese che il processo che subiscono è proprio di natura opposta, una spoliazione di senso a tutto il loro essere, una ridicolizzazione dell’essere, dell’esistenza, della cultura aborigena per il pubblico ludibrio. Gli aborigeni affascinano e spaventano al tempo stesso questo pubblico che affluisce in massa per osservarli mangiare, dormire, fingere di lottare. Se la lotta, il canto o la danza appaiono ai tre una forma quasi lecita di intrattenimento, è ovvio che si sentano dolorosamente umiliati quando la gente si ferma ad osservarli mangiare, in uno spettacolo che non può mai avere fine e finisce per logorarli. Jurano, ad esempio, fa la conoscenza dell’alcol per curare una nostalgia, una lontananza non solo affettiva e fisica ma esistenziale: che vita è, questa? La speranza di incontrare la fantomatica Regina inglese – l’obiettivo che Bonny si è dato e che il padre di Hilda ha avvalorato – passa attraverso tournée, attraverso letti scomodi e sottotetti, attraverso misurazioni svilenti e stramberie di vario genere; gli scienziati che li osservano hanno teorie da validare, ad ogni costo, e non c’è rispetto per l’altrui sentire o per una morale che lascia spazio al sopruso. L’unica voce che si oppone è quella di Hilda, reietta tra i reietti perché donna e amica dei selvaggi: ma possibile che non si rendano conto di ciò che stanno facendo a questi tre suoi amici? Possibile che davvero non si rendano conto di non considerarli minimamente umani ma “esemplari”? Hilda è sempre più disgustata da ciò che devono affrontare i suoi amici e prova vergogna, colpa a cui non sa come rimediare, ponendo la sua cieca fiducia in un padre che finirà per non riconoscere. E’ il ricordo della madre a tenerla a galla assieme alle promesse che ha fatto ai suoi amici, promesse che inevitabilmente, non per colpa sua, disattenderà. Amburgo, Berlino, Dresda, Parigi,Londra: un infame carrellata di spettacoli, di collezionisti d’umanità come pezzi d’arte, di mostre e mostri. C’è stato un punto, nei capitoli finali, in cui il mio pensiero echeggiava la voce di Hilda e diceva “basta”. Immaginavo le voci, le risa, lo strazio, la lingua che Bonny e Dorondera non capiscono perfettamente, l’isolamento linguistico derivante, il cambiamento climatico: come un’onda travolgente fino al punto di non ritorno, in cui tutto si spezza.

Partendo da una storia vera, l’autrice ci conduce in un viaggio fatto di dolore e disincanto, di stupore e inganno, di impotenza e razzismo, di svilimento e disumanità e lo fa con una penna estremamente lucida, competente, capace di far respirare le stesse atmosfere che descrive al lettore e di emozionare. Mi sono arrabbiata, mi sono commossa, ho avuto voglia di chiudere gli occhi davanti alla brutalità disarmante degli esseri umani, ho empatizzato con il sogno di Bonny di parlare alla Regina della sofferenza del suo popolo e lo scontro con la realtà di una Londra sporca, povera. Come può una Regina accettare questo per la sua gente? Si chiede Bonny. E una persona così come può essere solidale verso il suo grido di dolore? La realtà è un miscuglio di rassegnazione e tradimento per Bonny, è la ricerca di un posto nel mondo per Dorondera, ma al tempo stesso accettare ciò che sta succedendo non riguarda solo loro, gli aborigeni, ma ha molto a che fare con Hilda, con la consapevolezza di chi è lei, di cosa vuole e può fare per le persone che ama. Per lei ho provato un mix di emozioni: dalla tenerezza per l’amore che nutre per Bonny, alla rabbia per la cieca fiducia mal riposta nel padre. Forse, Hilda dentro di sé, nel profondo, sa benissimo che le parole e le promesse paterne non valgono nulla ma non vuole accettarlo, finendo per vivere costantemente in un ciclo di delusione e bugie che l’uomo le propina e lei, ci vuole credere. Non può far altro che crederci, attaccarsi con unghie e denti all’unica persona di riferimento che ha dopo la morte della madre, donna completamente diversa dal padre. Proprio per Hilda, a mio avviso, il viaggio dall’Australia alla terra natale simboleggia il culmine di un percorso evolutivo: deve confrontarsi con sentimenti umani come l’invidia e la gelosia, con l’ideale di bellezza che ha e che gli altri hanno, con quelle pulsazioni e pulsioni che prova per Bonny. Perché uno scienziato francese può sposare Dorandera, avallando pubblicamente l’unione tra due razze, e lei non può sperare in un futuro con Bonny in Germania? Che il loro futuro eventuale sia contemplato solo con il rientro in Australia? Il decoro colpisce Hilda come un treno, improvviso, dimenticato quasi.

Non solo il rapporto tra Hilda e suo padre si consuma, inevitabilmente, ma anche quello con Dorondera, la quale si crea una nuova vita, e con Bonny, stanco e disperato, lasciando Hilda sola, in una terra che è sua ma a cui sente di non appartenere. Muore il sogno, muore l’umanità, sacrificata sull’altare di una scienza che troppo spesso nel romanzo si sposa all’avidità: è questo il motivo per cui il padre di Hilda architetta il viaggio ? Per i soldi? Per la gloria? Per tornare sulla cresta dell’onda e cancellare l’onta del disastro con il ponte e il peso di quei morti?

Un romanzo che lascia domande e riflessioni, una su tutte: chi è davvero il selvaggio, qui? Dove si colloca il confine tra umanità e barbarie? La coscienza morale e sociale sembra essere qualcosa da plasmare al proprio beneficio dal più forte che decide quindi i canoni di una normalità e di una sorta di superiorità razziale, tracciando confini pericolosi. Una storia dolorosa, difficile da leggere e narrata con uno stile preciso, competente; la scelta di alternare capitoli raccontati in terza persona da Hilda a capitoli raccontati in prima persona da questa sorta di spirito che definisce sé stesso “narratore fantasma” ha permesso un ampliamento di prospettiva. Infine, la postfazione dell’autrice corredata da fonti, mi ha aiutato a capire non solo il contesto all’interno del quale si è mossa, ma anche, forse, il motivo che l’ha spinta a immaginare la storia di personaggi senza voce.

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