La scuola sui binari

La scuola sui binari

Buongiorno, lettori! Oggi vi parlo del romanzo La scuola sui binari, scritto da Ángeles Doñate ( traduzione di Alice Pizzoli), ed edito da Feltrinelli Editore, che ringrazio per la copia.

TRAMA

In una stazione ferroviaria costruita in mezzo al nulla, tra campi polverosi e qualche timido albero da frutto, c’è un treno che non va più da nessuna parte eppure porta dappertutto. All’interno, non ci sono scompartimenti, ma banchi di legno e una lavagna. All’esterno, qualcuno ha scritto sulla porta in una calligrafia incerta: “Escuela Artículo 123”. È una delle scuole-vagone previste dal governo messicano per i figli dei dipendenti delle ferrovie, scuole ambulanti per famiglie nomadi, sempre in viaggio ad aggiustare binari o tirare cavi dell’elettricità. Ikal ha undici anni e sogna di diventare insegnante. È amico di Chico, conta i treni che passano con Tuerto, è segretamente innamorato di Valeria e vive mille avventure con il suo cane Quetzal. I loro volti, immortalati in una foto in bianco e nero, emergono da un fascicolo della Dirección General de Educación sulla scrivania di Hugo Valenzuela. Don Ernesto, l’anziano maestro della scuola, sta per andare in pensione e alcuni politici vogliono approfittarne per archiviare definitivamente un modello educativo giudicato inutile e antiquato. Hugo deve decidere se convalidare la chiusura.  In un viaggio nel passato che metterà a rischio anche il suo futuro, scoprirà che ci sono cose che lasciano tracce incancellabili. Come il primo amore o un insegnante che, con passione e coraggio, ci apre le finestre sul mondo.

La Ley del Trabajador ha sancito, negli anni Trenta, uguali diritti all’istruzione per i figli di quei lavoratori, tantissimi, che popolano un paese vasto, dalle scarse possibilità di comunicazione, un paese costretto a muoversi tanto per poter lavorare. In quest’ottica, sono sorte le scuole come quella Malinalli Tenepatl, in un vagone abbandonato della ferrovia, sui binari che i figli degli alunni di don Ernesto contribuivano a costruire, un vecchio vagone verde, all’esterno, un micromondo, all’interno. Divisi in piccoli, mezzani e grandi, si alternano gli alunni di don Ernesto, che li vede passare e ne serba nel cuore il ricordo: alcuni più turbolenti, alcuni più fragili, alcuni brillanti, alcuni rassegnati a un destino che sembra già scritto, per don Ernesto, però, sono semi da coltivare.

In una classe in particolare si intrecciano le storie di vita di Chico, Tuerto, Valeria e il mezzano Ikal, miracolosamente accettato dal gruppo dei grandi quando ha mostrato il proprio coraggio toccando il primo cadavere delle loro vite. E la voce di Ikal ci racconta di quei mesi intensi, pennellate di ricordi che disegnano una tela evidente e una più silenziosa e sotterranea, fatta di sguardi rubati, di sogni, di desideri, di preoccupazioni. Ikal, il giorno in cui è stato ammesso al gruppo dei grandi, ha preso con sé Quetzal, cane amorevole e fidato che diviene un pò la mascotte della scuola, tanto che alla fine di quell’anno scolastico don Ernesto diploma anche lui, dicendo ironicamente che è stato più sveglio di alcuni dei suoi alunni! Ma non c’è ironia nel momento della fine della scuola: Ikal non è più il ragazzino spensierato di prima, una ferita irreparabile lo ha diviso a metà. Una delle due metà cercherà per tutta la vita di nascondere, di modificare, capendo solo alla fine che l’unica strategia per sopravvivere è ricongiungerle.

Sono anni di lotta al padrone, di lavoro nei campi, da cui nessuno è esentato, nemmeno i ragazzini; sono anni di primi amori, di amicizie tenere, di scelte sbagliate, troppo sbagliate. Nel piccolo villaggio di Ikal, fare una scelta sbagliata equivale anche a morire. Qui il destino lo decide la famiglia in cui sei nato e cresciuto, spesso affollata, spesso con genitori troppo presi dal lavoro per poter badare ai figli: la scuola di don Ernesto è una valvola di sfogo, allora, un momento di pace e di autonomia, al tempo stesso, in cui i figli di un’educazione famigliare comunque rigida possono trovare la propria voce. Sono i tempi della meraviglia del circo, delle scorribande serali, delle occhiate rubate ai capelli più belli della classe, sono tempi in cui ci vuole sentire accettati, in cui la vita è in bilico tra quella felicità ancora infantile e la durezza della vita adulta. Per qualcuno, quell’equilibrio è un fulmine, un furto, una promessa di salvezza all’ambito Nord.

E oggi, Hugo Valenzuela, intransigente ispettore capo della Dirección General de Educación, ha una cartelletta verde – che ironia della sorte: una pratica per chiudere quella scuola, obsoleto retaggio di un’istruzione che le alte sfere vogliono cambiare, modificare. Non, ovviamente, per apportare migliorie a quella classe schiacciata dal lavoro, ma per guadagno, per intrighi politici. E Hugo non è esente da personali mire: ha studiato tanto, si è laureato, ha perso suo padre e sua madre, ha costruito la sua vita attorno a un lavoro che deve servigli come trampolino per una carriera ben più ambiziosa. Ma tra lui e quel posto in Commissione, c’è la cartelletta verde, una fotografia di studenti e un cane. Tutto precipita. Hugo sembra impazzito. Le pressioni su di lui sembrano non avere effetto e la sua riconosciuta celerità nel chiudere le pratiche sembra essersi smarrita. I numeri vogliono la chiusura di quella scuola, eppure. Forse vale la pena fare un viaggio … Tutto si ricompone.

Una storia toccante, intensa, emozionante su tematiche sempre attuali, quali la crescita, l’educazione, il sistema scolastico, la burocrazia così scollata dalla vita reale. Le scene sono così vivide, così crude ma al tempo stesse pregne di significati, che hanno agitato in me di riflesso ricordi, memorie, riflessioni, lacrime. Tornare sui banchi di scuola con Ikal ha il sapore dolceamaro della nostalgia, figlia della lente adulta con cui si osservano e si ricordano quelle memorie; e decidere con Hugo cosa fare di quella scuola è mettere in dubbio le scelte adulte. In che punto della nostra vita abbiamo smesso di essere ragazzi? Temi universali toccati da un’autrice empatia e sensibile.

I pensieri che l’autrice regala a Ikal sono aperture: a volte tagli, a volte squarci, a volte ferite, che ci permettono di guardare altrove, oltre la pagina, e di trovarci nel mondo del ragazzo, dove nonostante tutto, c’è una certa bellezza. Nel mondo sfortunato di Chico e Valeria, Ikal ha un padre che ogni tanto gioca a calcio con lui, una madre che quando può prepara la merenda.

Mia madre amava creare piccole serre di felicita’.

Parole come lame, che svelano il vero, che sanno di promesse: le lezioni di don Ernesto preannunciano la vita, aprono, ancora, spiragli di luce, di bellezza, di speranza. Ikal racconta quelle scene con lo sguardo velato dalle certezze del futuro, con la nostalgia del ricordo, e fa velare lo sguardo anche del lettore. La lezione sugli animali, sulle farfalla monarca e sui tritoni, è stata una delle mie preferite: don Ernesto è il maestro ideale, premuroso, accogliente, capace di rendere interessante ogni lezione e di trasportare i suoi alunni fuori, non più in un vagone … ma sulle ali delle possibilità.

Una storia in cui passato e presente si fondono, per ritrovarsi, per non dimenticare mai chi si è stati e chi ancora si può essere. Un tritone, una farfalla monarca, un maestro, un amore, un amico: nella stazione di treni Delicias c’è ancora tanto da fare e da dire. Tanta bellezza, tanta vita.

Con uno stile coinvolgente ed emozionante, l’autrice sa raccontare esistenze che hanno la consistenza del vero; i ringraziamenti finali, così come le citazioni che aprono alcuni dei capitoli, sono la perfetta chiusura della sua storia, il suo valore aggiunto, la sua umana sensibilità che travalica il foglio.

Non sono fatta di cellule, sono fatta di nomi.

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