La casa delle voci

La casa delle voci

Buongiorno, lettori! Oggi vi parlo di un thriller psicologico che entra a pieno titolo nella mia classifica personale dei migliori thriller letti: La casa delle voci, scritto da Donato Carrisi ed edito da Longanesi, che ringrazio per l’invio della copia digitale.

Un romanzo magnetico, che parla all’Io bambino del lettore e all’adulto, mettendo in discussione certezze e limiti; una storia che tocca il nostro nucleo intimo, e lo sconvolge. Potente, vertiginoso, magistrale: una penna capace di tratteggiare la psicologia umana con abilità e competenza uniche.

TRAMA

Gli estranei sono il pericolo. Fidati soltanto di mamma e papà.

Pietro Gerber non è uno psicologo come gli altri. La sua specializzazione è l’ipnosi e i suoi pazienti hanno una cosa in comune: sono bambini. Spesso traumatizzati, segnati da eventi drammatici o in possesso di informazioni importanti sepolte nella loro fragile memoria, di cui polizia e magistrati si servono per le indagini. Pietro è il migliore di tutta Firenze, dove è conosciuto come l’addormentatore di bambini. Ma quando riceve una telefonata dall’altro capo del mondo da parte di una collega australiana che gli raccomanda una paziente, Pietro reagisce con perplessità e diffidenza. Perché Hanna Hall è un’adulta. Hanna è tormentata da un ricordo vivido, ma che potrebbe non essere reale: un omicidio. E per capire se quel frammento di memoria corrisponde alla verità o è un’illusione, ha disperato bisogno di Pietro Gerber. Hanna è un’adulta oggi, ma quel ricordo risale alla sua infanzia. E Pietro dovrà aiutarla a far riemergere la bambina che è ancora dentro di lei. Una bambina dai molti nomi, tenuta sempre lontana dagli estranei e che, con la sua famiglia, viveva felice in un luogo incantato: la «casa delle voci». Quella bambina, a dieci anni, ha assistito a un omicidio. O forse non ha semplicemente visto . Forse l’assassina è proprio lei.

Pietro Gerber ha trentatré anni ed è un “addormentatore di bambini“, definizione apparentemente più semplice ed immediata per descrivere quello che in realtà è un mestiere complesso: Gerber è uno psicologo infantile specializzato in ipnosi. Questa sua caratteristica lo ha portato spesso a lavorare di concerto con il Tribunale, per coadiuvare i Giudici nel compito di indagare la psiche, ma soprattutto la veridicità dei minori; in tal senso, si trova a dover fronteggiare violenze e soprusi, e ormai da tanti anni lavora come consulente per il giudice Anita Baldi, una donna prossima alla pensione ma con la vocazione di aiutare e salvare i bambini da un destino terribile.

E proprio sul tema del bene e della salvezza che il romanzo si incentra e si focalizza: cosa si è disposti a fare e sacrificare pur di perseguire un presunto bene superiore? Incistato sul tema della sofferenza psichica, trattata in modo approfondito e coinvolgente per il lettore, il romanzo ci sottopone diversi e scottanti interrogativi etici e morali; uno degli argomenti ben noti a chi lavora con il disagio psichico, con le situazioni al limite, è lo scollamento tra l’oggettività del pericolo e del malessere e la soggettività della vittima, la quale spesso non riesce a comprendere il dato riportatole. Per la vittima, quella è l’unica realtà che ha vissuto, l’unica possibile. Nel caso dei bambini, il tutto è aggravato da un assunto innato ed insito in ognuno di noi, ovvero la convinzione che i nostri genitori debbano amarci e se ciò non avviene la frattura interna è insanabile: se non sono passibile di amore da parte di chi dovrebbe amarmi a prescindere, come farò ad andare del mondo? Argomento dibattuto e controverso in ambito medico psichiatrico e psicologico, che coinvolge anche quelli che vengono chiamati stati dissociativi della mente, intimamente connesso al concetto di trauma.

In un certo senso, quando Gerber dice, e lo fa spesso, che ” per un bambino la famiglia è il posto più sicuro della terra. Oppure, il più pericoloso“, si riferisce proprio a quel dato ovvio di sicurezza e benessere che deriva al pensiero di famiglia, un luogo, uno spazio, in cui nulla può tangere, il male non può arrivare. A meno che il male non sia proprio rappresentato dalla famiglia. Carrisi ci spinge oltre – e lo farà tante volte nel corso del suo romanzo – portandoci a chiedere: ma chi decide cosa è male? Per chi, è male? Per chi vive? Per chi osserva? La sola certezza che si ha sono le conseguenze devastanti che alcuni atti hanno sulle vittime, e su questo nessuna buona fede può mitigare l’effetto; Gerber, però, si troverà coinvolto in una situazione che è l’incubo di ogni psicologo, la violazione – o almeno, così sembrerebbe – costante e recidiva, del setting, da parte di una paziente. Hanna Hall arriva dall’Australia e porta con sé il carico di un trauma antico e dimenticato; il suo aspetto esteriore dimesso e trascurato, i suoi tremori, le sue farneticazioni circa “estranei“, e circa una fantomatica cassa contenente i resti di un fratello morto, farebbero pensare ad uno squilibrio grave della personalità. Tuttavia, Gerber non è convinto dalla diagnosi di schizofrenia: qualcosa lo turba, lo cattura, lo intriga e lo infastidisce. Ben presto, diviene ossessionato dalla donna e il lettore insieme con lui: una paranoia sottile e subdola si insinua nella mente del giovane psicologo che nasconde un segreto enorme. Come fa Hanna a intrufolarsi nella sua intimità? Come fa a sapere cose che nessun altro sa? Atti mancati, lapsus, domande che sembrano già contenere il seme della risposta e che spaventano Gerber per il senso di intrusione perversa nella sua vita. Hanna viola il setting o è Gerber a permetterglielo perché inconsciamente convinto di un legame con la paziente? Paranormale? Pazzia?

Eppure, no, Gerber avverte come l’artiglio della paura, un sudore freddo, il senso di un presentimento inconscio: qualcosa li lega ed ha radici in un passato ancestrale che parla di desiderio ed amore, che parla di dolore e tormento. Angoscia che attanaglia lo stomaco, suggerita ed estremizzata da uno stile diretto ed incalzante che rende impossibile interrompere la lettura: bisogna sapere, bisogna vedere e spiare Gerber, ricostruire il puzzle della vita di Hanna e di riflesso, quella di Gerber. Le sue fragilità, la sua infanzia orfana di madre, il suo rapporto con un padre chiamato raramente per nome e più spesso evocato con l’appellativo datogli dai suoi piccoli pazienti ( e questo rimanda ad una serie di riflessioni sul rapporto padre-figlio davvero interessanti), la scelta di Pietro di proseguire, in un certo modo, l’opera paterna … ma perché? Per ripicca? Per vendetta? E quella stanza chiusa, la stanza del padre, la stanza di analisi dove le sofferenze psichiche emergono … ma quelle di chi?

Ma il lavoro di Pietro Gerber era ancora più particolare: consisteva nell’insegnare ai bambini a mettere ordine nella loro fragile memoria – sospesa fra gioco e realtà – e a distinguere ciò che era vero da ciò che non lo era.

In un crescendo di rivelazioni al cardiopalma, andiamo alla scoperta di una storia di disagio, di dolore, ma anche di amore: un amore duro e difficile, nato nelle asperità e in un contesto sociale devastante, ma pur sempre amore, che come tale ha i propri frutti. Una storia di riscatto e di consapevolezza, in un gioco di specchi dove il confine tra spettatore e attore è talmente sottile da risultare evanescente. Gerber prova – ed il lettore con lui – ad anticipare le mosse di Hanna, ma la sua imprevedibilità sembra gabbare lui e noi: sarà davvero così? Chi è davvero la donna?

Hanna si fa portatrice di un sentire profondo, che ricorda spesso al suo psicologo, ovvero la necessità di dare credito alle parole e ai ricordi, alle esperienze e ai vissuti di un bambino; irrompe nella vita e nella mente del suo terapeuta che non è più capace di mantenere quella distanza necessaria affinché la terapia funzioni, anzi viene inglobato dal mondo e dal delirio di Hanna, colludendo con lei. Ma, ormai, per Gerber non c’è più scampo: deve sapere, anche se questa curiosità lo metterà davanti a verità terribili, non può più nascondersi dietro l’idea della cura.

Dentro quell’adulta c’è una bambina che ha solo voglia di parlare: qualcuno dovrebbe entrare in contatto con lei e ascoltarla.

Mi ha fatto riflettere molto la tematica delle voci, richiamate già dal titolo del romanzo: Hanna è voce del passato, parla con una coralità di voci e dando corpo a voci antiche, quelle dei bambini, quelle della memoria.

Hanna non sa il proprio nome, quella radice autentica ed intima che ci dice chi siamo, impedendole uno sviluppo psicologico adeguato, destrutturandone una personalità per forza di cose selvaggia e fragile. Hanna diventa altro da sé, principessa di una favola che non esiste, che è pallido eco di una realtà ben più complessa, dove i mostri si nascondono in personaggi dai colori sgargianti, dove ancora una volta la consapevolezza di una bambina è arbitrariamente alterata. Senza strumenti per discernere reale da fantasticato, Hanna prova a trovare riferimento in un regno dei morti, in un paranormale evocato dalla campagna toscana, dalla tradizione che comunque le arriva. Privata di un nome che non può essere detto, privata di un’identità troppo giovane che non si può affermare perché non ha voce, Hanna non sa chi è e non le è dato saperlo; tuttavia, lei ricorda con affetto e malinconia quell’infanzia che dalle sua parole traspare come un momento di fuga e di abbandono. Gerber prova con tutte le sue forze a dipanare questa matassa ma non capisce come possa essere egli stesso un filo di questo intricato lavoro. Eppure, lo è.

Uno stile unico, coinvolgente, curato in ogni minimo dettaglio, una trama che tiene la tensione narrativa altissima e stimola, pungola, alletta, spaventa il lettore … paure antiche, che richiamano all’essere invasi dall’altro, al non avere confini, alla perdita di una identità consolidata, paura dell’ignoto, degli estranei, di essere privati degli affetti più autentici. Vittima e carnefice, salvatore e salvato: chi è chi?

Un romanzo che parla alle paure e delle paure, e lo fa in modo sublime, con una competenza notevole della mente umana, scandagliata nei suoi anfratti più oscuri, innescando ricordi, ma soprattutto emozionando il lettore con un finale incredibile, che ammetto di aver letto con gli occhi velati. Un mondo segreto, un legame perduto: cosa si è disposti a fare per amore?

Se vuoi vivere, devi imparare a morire.

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