Ruthie Fear
Buongiorno, lettori! Oggi vi parlo di Ruthie Fear, scritto da Maxim Loskutoff ( traduzione di Leonardo Taiuti) ed edito da Edizioni Black Coffee che ringrazio per la copia.
Tra le montagne della Bitterrot Valley, in Montana, la piccola Ruthie Fear si avventura in un canyon e avvista una misteriosa creatura senza testa che subito svanisce nel nulla. La vita va avanti e Ruthie cresce al fianco del padre – un cacciatore ruvido e testardo – e a tutta una società al maschile in cui fatica a trovare il proprio posto. In quel periodo, proprio mentre lei si addentra nella maturità, il suo unico riferimento stabile, il paesaggio naturale, conosce un momento di crisi: crescenti tensioni sconvolgono la piccola comunità montana e il disastro ambientale incombe. Inserendosi nella tradizione letteraria di autori come Cormac McCarthy e Wallace Stegner, dediti alla narrazione dell’Ovest americano, Ruthie Fear è l’ammaliante e spaventosa storia di una donna e di un mondo sull’orlo del precipizio.
Cresciuta tra montagne che le ricordano dita pronte a chiamarla, ad invitarla, una natura selvaggia e ancestrale, e una comunità che riflette perfettamente il territorio, Ruthie è la protagonista di questa storia di formazione, di vita, di amore e morte, magistralmente raccontata dalla penna asciutta e disincantata dell’autore. La conosciamo, nell’incipit del romanzo, appena nata: l’anno della sua nascita coincide con l’uccisione da parte del padre dell’ultimo lupo della valle, sancendo un legame quasi di sangue con gli animali, con la caccia, con il mondo naturale che la circonda. Ruthie, che porta il nome del padre, non ha mai conosciuto la madre e cresce con lui, Rutherford, le sue armi, le sue idee, i suoi amici; è tramite questi adulti di riferimento – se così possiamo definirli – che Ruthie apprende il bene e il male, gli ideali e i valori per cui vale la pena vivere. E’ un apprendimento che passa tramite l’osservazione dei comportamenti, tramite l’ascolto delle loro ferree e granitiche convinzioni: sono uomini che di fatto non hanno mai lasciato il posto in cui vivono, radicati ad una terra che a tratti gli è favorevole e a tratti è ostile, come accade per gli amici del padre e di Ruthie, indiani, cacciati dalle loro terre dai “bianchi”, e come accadrà anche al padre di Ruthie. La loro terra, la loro casa, passa da essere territorio incontaminato, o quanto meno contaminato solo da loro, a luogo di turismo e speculazione edilizia: è interessante osservare in questi personaggi proprio questa dicotomia, se la natura viene uccisa da loro, cacciatori nell’animo, va bene ma se a farlo arriva il magnate che costruisce case, alberghi, centri di ricerca, scatta una sorta di protezione egoistica del suolo, degli animali.
Ruthie impara a cacciare con suo padre da piccolissima: riconosce gli animali, impara il ciclo della vita e delle stagioni, regola se stessa sull’odore del padre, sul suono dei suoi passi. Inevitabilmente, da bambina vuole piacere a tutti i costi all’unico genitore rimastole (interessante notare come per tutto il romanzo Ruthie non ponga mai al padre domande relative a sua madre, una figura nettamente dimenticata), vuole l’approvazione di Rutherford che passa attraverso la capacità di maneggiare armi, di sapersi occupare di se stessa, perché lei, in fondo, è sola. In maniera naturale, Ruthie ricerca se stessa nel contatto con ciò che la circonda: alberi, canyon, silenzi, foglie, anatre, cervi, una vitalità che la penna dell’autore colora sempre di un misto tra bellezza e decadenza, tra stupore e angoscia. Tra spiriti e folclore, Ruthie cresce e diviene ragazza prima e donna poi: con la sua amica Pip sperimenta i primi amori, il sesso. La sensazione che ho provato seguendola in questo percorso di crescita è che Ruthie sia sempre alla ricerca di qualcosa, qualcosa di ineffabile che nemmeno lei sa descrivere, forse la felicità, forse altro; sicuramente cerca il suo posto nel mondo, a Las Vegas , in quei tre mesi durante i quali le luci, il traffico, la gente, il rumore le rimbombano nella testa e nel sangue spingendola a tornare tra le sue montagne, a casa sua. L’idea che gli altri hanno di lei è di una “tosta”, ma lei come si sente davvero? Cerca se stessa nelle relazioni d’amore fallimentari che costellano la sua vita: “Quant’era patetico questo fatto che potevi fare tutto il giro fino a tornare ad amarli? Gli uomini, cioè“. Questo pensiero di Ruthie mi ha colpito: Badger, Sitka, suo padre. Cosa si concede di provare Ruthie? E verso chi? Cosa spera di trovare in queste relazioni che alla fine sembrano essere quasi più un peso per lei, così parca di parole e di gesti?
L’altra grande protagonista assieme a Ruthie è la natura selvaggi che la circonda, qualche volta la conforta e qualche volta la sovrasta con la sua vitalità che sembra quasi sbeffeggiarla, con i suoi misteri e segreti: le descrizioni dell’autore sono magnifiche, capaci di rendere in modo vivido l’ambiente circostante. Traspare un rispetto e un amore profondo per quei luoghi che prendono forma e vita grazie alle sue parole e ci sembra di essere lì, a respirare gli inverni e a patire il caldo, con l’aria pervasa da fumo e odore terroso, con il silenzio immobile dei cervi. La natura sembra quasi stare in agguato ad osservare cosa accade nella valle: cambia, muta, si trasforma, in un rapporto strettissimo con i suoi abitanti umani che regolano le loro esistenze leggendo questi cambiamenti. Eppure, la natura finisce per ribellarsi: sventrata, umiliata, reagisce e quando lo fa, non c’è scampo.
Attorno a Ruthie, si muove una carrellata di personaggi secondari che sono lo specchio della comunità rurale tratteggiata alla perfezione dall’autore, che conosce benissimo la materia di cui tratta: sono persone che per un motivo o l’altro sono restate lì, in questo piccolo angolo di mondo che difendono con le unghie e con i denti? Ma da chi? Apparentemente da tutto ciò che rappresenta un potenziale pericolo per la valle, ma loro come si collocano in questa scala di pericolosità? Loro che sparano, che cacciano, che uccidono. Arriva un punto, verso la fine del romanzo quando Ruthie ormai è trentenne, che lei, nata e cresciuta lì, non riconosce nessuno: perché tante persone hanno scelto di venire a vivere lì? Cosa speravano di trovare? La pace? Ruthie non lo sa e non può saperlo visto che nemmeno lei sa dove possa essere la sua di pace. I rapporti interpersonali sono schietti, quasi ridotti all’osso, e si inseriscono nel contesto che l’autore ci racconta: non ci sono baci e carezze, qui, c’è la vita da affrontare e basta, il lunario da sbarcare. La vita è violenta, severa, per alcuni. E i personaggi l’accettano così com’è. Forse solo Ruthie cerca un modo per tenere tutto in equilibrio, per conoscersi senza perdersi e senza perdere il contatto con le sue origini. Ma quanto è difficile non smarrirsi, non diventare come gli altri, non rassegnarsi.
Montagne e negozi, stagni e centri di ricerca, dolci colline e coyote avvelenati. La dicotomie talvolta stridevano a tal punto da disorientarla.
Ai margini della sua coscienza torna l’immagine di quella strana creatura che ha avvistato da piccola, nel canyon: una sorta di rene senza testa con le zampe sottilissime. Cos’è? Un messaggero, un’allucinazione?
Con una prosa capace di coinvolgermi, l’autore ci canta la storia di Ruthie, della sua famiglia, della sua comunità e della sua valle; i suoi amori, i suoi tormenti, i suoi fallimenti e i suoi sogni, che non appartengono solo a una ragazzina ai margini della Bitterrot Valley ma divengono sogni universali, alla ricerca della propria identità che passa attraverso il disincanto, le cadute, le ferite, le prese di coscienza. Ruthie deve crescere e lo fa, senza prescindere dalle sue radici, dal rapporto con suo padre, tesa tra chi vuole essere e ciò che gli altri si aspettano da lei, in bilico tra desideri, paure e possibilità.