La bella indifferenza

La bella indifferenza

Buongiorno, lettori! Oggi vi parlo del romanzo La bella indifferenza, scritto da Athos Zontini ed edito da Bompiani che ringrazio per la copia.


Una mattina Ettore Corbo, commercialista disilluso che lavora nello studio di famiglia, scopre di non riuscire più a vedere il volto delle persone: al suo posto un vuoto ovale da manichino. Le visite a cui si sottopone, convinto che si tratti di una malattia, non danno risultati, e per Corbo, intrappolato in un matrimonio privo di emozioni con Marta, non c’è via di uscita da quella cecità selettiva che gli nasconde o forse gli mostra la natura dell’essere umano. La nuova prospettiva fa emergere l’inutilità e la falsità delle faticose relazioni che intrattiene con il resto del mondo. Sempre più solo, feroce e impermeabile alla quotidianità fatta di riti in cui non crede, sordo al clima politico sempre più teso, Corbo si chiude in se stesso e si apre insieme a un’altra possibilità di vita che per quanto assurda gli appare praticabile, anzi, desiderabile. Un romanzo grottesco e impietoso che nella storia deformata del singolo rispecchia la deriva indifferente del nostro mondo.


(…) la belle indifférence: una inappropriata mancanza di preoccupazione, un profondo distacco emotivo del paziente rispetto alla gravità dei sintomi che manifesta, che può spingersi fino alla negazione, talvolta, della condizione drammatica in cui si trova.

21 ottobre. Un giorno qualunque per tutti ma non per Ettore Corbo, commercialista, sposato. Uno sguardo al proprio cellulare prima di sollevare gli occhi e accorgersi che, senza motivo apparente, la facce sono sparite. Niente più occhi, nasi, bocche: solo ovali di pelle, “guscio di un uovo incorniciato dai capelli“. Anche la propria faccia, andata, perduta. Panico e angoscia si susseguono ma dai primi esami neurologici non risulta nulla, nessuna diagnosi nefasta.

Tutto è a posto ma come può esserlo quando è circondato da manichini senza lineamenti? Come può vivere, ora, accerchiato da gente sconosciuta? Senza più punti di riferimenti, il deragliamento psichico di Ettore assume, pagina dopo pagina, contorni sempre più disastrosi. Decide di tacere l’accaduto a Marta, sua moglie: come e cosa spiegarle? Sembra assurdo, folle quasi, ma soprattutto come può dire alla donna con cui vive accanto da una vita che al posto dei suoi occhi e del suo viso ora vede un informe uovo di pelle, agghiacciante e inquietante? Che dolore provocherebbe in lei? Ma non è solo per puro altruismo o empatico sentire che Ettore tace: ha paura, non sa cosa fare. Si sviluppa in lui un senso crescente di estraneità all’interno della propria vita: luoghi e persone che gli erano familiari (forse non cari ma almeno noti, sì), si trasformano in presenze oscure, inintelligibili; non c’è affascinante mistero in questo ma c’è il terrore di tale non riconoscimento a fronte di un mondo esterno che continua ad avere verso di lui pretese. Lavoro, famiglia, moglie. Nessuno si è fermato, Ettore è costretto a trovare un nuovo equilibrio nel caotico squarcio aperto da questa “cosa“, una condizione senza nome e senza causa fisica apparente. Che sia un difetto della mente, suggerisce il medico che lo segue?

La situazione surreale e grottesca offre al protagonista una nuova lettura della sua intera esistenza: a partire da quel matrimonio simbolicamente rappresentato dalla macchia di umidità sul soffitto che Marta si ostina a imbiancare ciclicamente o dalle cene familiari cui Ettore assiste quasi sdoppiato, svolgendo conversazioni mentali in cui riesce a controbattere agli altrui discorsi e in cui smaschera altarini che gli paiono lampanti ma di cui gli altri tacciono; e quel lavoro, peso ereditato dalla madre a fatica, una responsabilità non voluta per un uomo, all’epoca ragazzo, senza grandi pretese che forse dalla vita voleva altro, forse nemmeno lui sapeva- sa cosa. Ma i giorni sono diventati mesi e anni ed Ettore si è trovato imbrigliato in una morsa di appuntamenti, salamelecchi e cortesie, in un rituale borghese che ora, proprio la sua condizione, gli fa percepire in modo diverso: scappatoia o trappola? Non riuscire a leggere gli stati emotivi altrui, doverli evincere da altri segni, è una forma di protezione dalle emozioni, proprie e degli altri, o una perdita? Senza questi dati, l’altro chi diviene? Uno specchio o un vuoto accompagnatore di cui si può fare a meno? Se comunicare diviene proibito, cosa resta?

Accanto all’angoscia di non sapere prima che malattia può avere, e conseguentemente Ettore non si chiede nemmeno se possa esservi cura, l’uomo inizia a ripensare quasi con nostalgia a ciò che ha perduto, all’ultimo volto osservato, subentra la mancanza di qualcosa legato al passato così gravido di possibilità che si è trasformato in un presente logorante, asfissiante, apatico e asfittico. Ma i ricordi sono belli perché tali, caricati di bellezza in confronto al presente, o sono belli oggettivamente? Difficile dirlo: Ettore pare un uomo scontento, del suo passato sappiamo poco e nulla, ma ci viene restituita l’immagine di un uomo stufo, sottomesso e che ha voglia di piccole vendette. Un uomo che vuole agitare quelle “esistenze ordinate” da cui è circondato e di cui fa parte, immerso in farse famigliari, in oggetti accumulati che restano a prendere polvere in casa solo perché buttarli sarebbe irrispettoso. Eppure, per Ettore comincia una purga, una liberazione da atteggiamenti e idee, da valori e finti riti sociali; attorno a lui non lo riconoscono più ma tanto nemmeno lui si riconosce e riconosce quelli che gli stanno accanto. Nella perdita di lineamenti scopre una moglie nuova, privata di quella bellezza che per lui giustificava certi atteggiamenti ora cosa resta?

Ben presto Ettore si rende conto che attraverso lo sguardo degli strumenti tecnologici come il cellulare o la televisione, riesce a vedere i volti, inquadrati in una fotocamera, ma questo non farà che allontanarlo dalla moglie quando lei gli chiederà sempre più frequentemente di passare meno tempo incollato al cellulare, suo unico faro di salvezza; al tempo stesso, il cellulare gli rimanda attraverso i social network immagini di vite fintamente costruite, di relazioni volutamente messe in mostra da cuori e commenti positivi.

Ogni suo gesto era diventato alieno.

Estraneo alla propria vita, a tutto ciò che aveva: libertà o sconfitta? Annichilimento o rinascita? Cosa vuole Ettore?

Anche l’amore, la relazione di coppia, è qualcosa di difficile: Ettore non riesce a capire come la sua necessità di amplessi animaleschi per non ammettere la realtà di avere un rapporto sessuale con una sorta di manichino senza volto, venga letta da Marta come un trionfo orgiastico, estatico, come una nuova frontiera di una relazione quasi spenta e morta. E come può Marta accettare passivamente ognuna delle tantissime stranezze dal marito? Dal fumo al nuoto agli orari impossibili di lavoro, all’assenza nelle vacanze natalizie ( impossibile per Ettore pensarsi a cena con quegli ovali di pelle intenti ad ingozzarsi e insudiciarsi di parole inutili), ai dialoghi monosillabici, ai mobili spariti. Marta stoicamente ferma nell’intento di diventare madre ad ogni costo, di avere la vita che vuole, di marcare il cartellino con le stesse tappe di tutti, cosa ci dice di lei ed Ettore?

Attraverso Ettore, l’autore declina il racconto di una generazione, un racconto cinico da cui nessuno esce pulito, anzi: la borghesia cui Ettore sembra appartenere è il ricettacolo di tradimenti, di bugie e menzogne, di mazzette e di insulti; un mondo torbido, reso ancor più straniante da queste figure senza volto che si muovono come manichini su uno sfondo mutevole che finisce per assomigliare sempre più a questa nuova generazione. Un ritratto angosciante dell’omologazione che Ettore racconta, e che ci lascia con ipotesi, riflessioni e domande. Chi rappresenta davvero Ettore?

Con uno stile arguto e una fine competenza della psiche umana nonché delle dinamiche sociali, l’autore ci consegna un romanzo tutto da leggere e rileggere per cogliere finezze e sfumature, complessità su cui ragionare; lucida e tagliente, la penna affonda nella carne contemporanea, mettendo in luce debolezze, fragilità, velleità dell’essere umano. Il finale è amaro e sospeso, lasciato tra le braccia di un oggetto con naso, bocca, occhi, ma senza parola.

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