Neroconfetto

Neroconfetto

Buongiorno, lettori! Oggi vi parlo della raccolta di racconti Neroconfetto, scritta da Giulia Sara Miori ed edita da Racconti edizioni che ringrazio per la copia.


Un sottile filo sembra legare le protagoniste di queste storie, un nodo che spezzandosi potrebbe segnare la loro fine. In un negozietto vintage compri una giacca che, a detta di tutti, ti sta benissimo. La indossi e scopri che ora il mondo ti vede diversamente: più bella, anzi bellissima, ma non come vorresti. Stare al centro dell’attenzione è quello che hai sempre voluto, ma ora che si avvera vivi nel peggiore dei tuoi incubi. Succede spesso in queste storie: gli eventi lieti portano con sé il proprio rovescio e riservano brutte sorprese. Come quando una giovane madre si ritrova in casa una presenza minacciosa, un estraneo, si direbbe, salvo poi scoprire che si tratta di suo figlio. Oppure quando il tempo si ferma solo per te e un volo di tre ore sembra destinato a durare un’eternità, l’orologio che batte sempre le 16.34. E poi c’è quel colloquio per un lavoro che sembra ti abbiano cucito addosso, in fondo si tratta solo di giocare con una bambina e le sue bambole. Cosa potrà mai andar storto? Ossessioni, ombre, ricordi che hanno tutta l’aria di essere fantasmi sembrano inseguire le protagoniste di questi racconti ovunque vadano, che sia Milano o l’Olanda, lasciandole inermi, impreparate davanti alla violenza dei desideri propri e altrui. E mentre due ragazze rimangono legate per sempre anche quando una delle due cerca di sfuggire, e dal cimitero di Trento esce una giovane donna che si sta ancora scrollando la terra di dosso, la voce perturbante di Miori ci guida in un territorio altro, quello dello strano e del macabro, per mostrarci il lato oscuro di ogni ideale di perfezione e di bellezza, nero come i confetti di una fiaba gotica.


Ventuno frammenti in cui il macabro e il perturbante si appostano dietro l’angolo della quotidianità fatta di routine e di sfondi urbani capaci di collocare lo scenario delle storie ovunque, in un mondo oscuro e malevolo che si cela dietro gesti apparentemente “normali”, come il trasferimento in una nuova casa, un nuovo lavoro come baby-sitter. Eppure, il limite tra normale e anomalo è sottilissimo, marcato dagli occhi di una statua a forma di gatto, da un amore non corrisposto, dall’ossessione per la magrezza, uno scarto che apre alle possibilità del caso; un incidente, un fantasma, un mostro sotto al letto.

In queste narrazioni con al centro tante e diverse donne, il corpo diviene una sorta di filo rosso ( o nero) che tiene uniti i fotogrammi sapientemente immortalati dalla penna dell’autrice, penna capacissima di farmi entrare da subito nelle storie e di farmene accusare il brivido, laddove presente e necessario, o di farmene sentire l’eco, dopo l’ultima riga, lasciandomi in sospeso, con le mie supposizioni.

Una delle cose che mi ha colpito è che l’elemento inquietante si nasconde nel quotidiano, in una narrazione che potrebbe avere chiunque come soggetto come nel caso di Alice: l’autrice maneggia bene la parola per lasciare sempre quella sensazione di sottile paura, di ansia, di angoscia per una fine che pare inevitabile e inevitabilmente spaventosa. E quando l’evento si manifesta, c’è la sospensione: la compagna osserva i capelli di Alice e spegne la sigaretta. Cosa importa? Si prosegue oltre: è qui che si annida l’aberrante? Nell’indifferenza?

E’ nelle cose di tutti i giorni che si acquatta l’orrido, sempre in agguato pronto ad aggredire, a riprendersi un posto che vuole, a scostare il velo di perfezione e luce e a dire: eccomi, in tutto il mio essere nero, un non-colore che non maschera ma espone.

I corpi di Neroconfetto sono deturpati, violati, indifesi, fragili, raccontati come l’ipnotica preghiera della mamma alla sua Lucille, sono corpi-madri e corpi-figlia, corpi da possedere e distruggere orgiasticamente come la piccola Camilla e la bellezza da bambola di Emma ( La baby-sitter). Sono corpi femminili in forme e sfaccettature cariche di inquietudine, di parole che nascondono altre verità, e fanno rabbrividire. Sono corpi stipati nella clinica per dimagrire, come Trenta ne La clinica. Perfezione, bellezza , benessere, canoni irraggiungibili in un futuro quasi distopico e distorto per queste ragazze di “prima scelta”. Sono corpi contenitori che mettono al mondo figli che non riconoscono e corpi che non vengono riconosciuti come figli ( La culla e Winnie).

Sono corpi desiderati e ardenti di un amore difficile come quello di Camilla- oggetto di desiderio, corpi ossessionanti come quello di Noemi in Per sempre, focus suo malgrado di un amore, da parte della narratrice, tossico, morboso, o corpi che vivono nella nostalgia asfissiante e perversa de La padrona di casa. Ci sono presenze che tolgono il fiato, che fanno paura per la prepotenza che vogliono prendersi nelle vite altrui, presenze che non vogliono lasciarsi andare e presenze che non possono farlo logorando chi resta, non a torto, come nel caso di Attilio e la bella moglie Marilena. Attilio e la sua ossessione per la moglie così bella ma anche irrequieta, una donna difficile forse che lo attrae proprio per i suoi modi incostanti in una miscela di odio-amore terrificante e pericolosa; lui che bramava di possederla, di distruggerla col possesso, la perde fatalmente ma è una perdita solo esteriore perché Marilena continua a ossessionarlo come una nuvola di fumo spesso e di musica, addensata nei polmoni, soffocante. Cosa prova, Attilio? Un senso di colpa meschino e perverso?
Ecco, un altro dei temi che ricorrono è quello della colpa, a mio avviso: c’è colpa nella bellezza? C’è colpa nel bramarla e con essa volere attenzioni e sguardi? Ma soprattutto, se ciò comporta una colpa allora deve esserci la pena, la punizione, come accade a Clara nel primo racconto, La giacca. C’è la mutilazione, l’isolamento.

Nei racconti Notturno, Isabel e Sigarette è la relazione matrimoniale e la sua successiva crisi ad essere il fulcro delle storie: coppie che si odiano, che sognano perversamente la fine dell’altro, la sparizione letterale del coniuge, come se eliminarlo o eliminarla dalla terra potesse in qualche modo aprire per il sopravvissuto la speranza di una vita nuova. Ma non va mai come sperato, vuoi per gli spettri che continuano a ossessionare, vuoi perché quando il coraggio finalmente arriva e si dice basta, succede il disastro – nero, vuoi perché la realtà viene letta e interpretata attraverso una lente personale e distorta.

Se le avessero chiesto se lo amava ancora, avrebbe detto che no, senza dubbio non lo amava più, ma a volte è difficile accettare che non c’è niente da salvare, proprio niente, se non una manciata di ricordi che iniziano a sgretolarsi uno dopo l’altro.

Relazioni in crisi a cui fanno eco crisi personali, personaggi allo sbando e alla deriva della propria vita che desiderano una condizione diversa ma non sanno come gestirla e devono affrontare la perdita, il cambiamento, l’accettazione di qualcosa di diverso che spaventa, che lascia un senso di vuoto. Segue una storia assolutamente contemporanea, Candeggina, dove una madre sposta l’angosciante paura del mostro pulendo e strofinando superfici di casa pur di non pensare a quello che sarebbe potuto succedere alla figlia di dieci anni, a quell’orco che invece ha preso l’amica. Il dubbio, il sospetto, il peso di una verità difficile da concepire eppure lampante, è nella cesta del bucato fresco e pulito che nasconde il marciume. In questa scena, ho letto proprio l’essenza di tutte le opere dell’autrice: nell’immacolato, la macchia, impercettibile, che quando scorta però assorbe lo sguardo, il pensiero, annichilisce e concentra ossessivamente tutto attorno a sé.

Io non voglio tagliare, mi dico, non voglio tagliare proprio niente, io sto bene coi miei capelli malati, coi miei capelli pieni di nodi e di punte spezzate e di residui di vecchi colori, residui di vecchi pezzi di testa e di parti di me che vivono incastrate l’una dentro l’altra, io sto bene con la mia testa ingarbugliata.

Omologarsi o distinguersi? Cedere al panico o mantenere il controllo? La paura abita spesso case comuni, luoghi e territori che dovrebbero simboleggiare la protezione e invece significano fine, solitudine, significano colloqui interminabili e sconfinati in aziende che risucchiano, famiglie senza amore, abusanti, dove lo spettro della morte ha il colore di un pigiama e la consistenza di una bambola, ultimo baluardo di conforto, o l’eterno ritorno come nel caso di Claire, protagonista de L’incidente, ultimo tassello. Adulti e bambini, i personaggi di queste storie riflettono le cupe ambientazioni, in bilico tra luce ed ombra, tra lottare per emergere e affermarsi e soccombere alla marea della vita che trascina via. Angosciante, perturbante, morbosa, la parola è un fiume in piena che dilaga dalle pagine e arriva all’epicentro del lettore, disturbando, stuzzicando. Il modo in cui l’autrice sceglie di declinare la storia, tra prima e terza persona, e’ congeniale al racconto che mette in scena; la parola e’ completamente piegata al senso che l’autrice cuce sulle sue storie, alcune volte dal ritmo inferocito e sanguigno del flusso di coscienza, altre calme come la memoria e il ricordo,  ma sempre marcate da quel sottofondo di angoscia imperante che si fonde con il quotidiano, diventa parte di esso.

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