Nord

Nord

Buongiorno, lettori! Oggi vi parlo del romanzo Nord, scritto da Burhan Sönmez (traduzione di Nicola Verderame) ed edito da Edizioni Nottetempo che ringrazio per la copia.


“Burhan Sönmez è uno scrittore di passione, di memoria e di cuore” 
Elif Shafak

In questo romanzo di Burhan Sönmez, scritto nel 2009, un giorno in fondo a un burrone viene ritrovato il corpo di un uomo con un orecchino di vetro custodito in bocca. Si tratta di Aslem, partito vent’anni prima per il nord senza lasciare tracce né spiegazioni. Il figlio Rinda è cresciuto tra le foreste e i precipizi che circondano il villaggio con la madre e il cavallo Belek, pieno di nostalgia mescolata a rancore per quel padre sconosciuto e andato lontano, chissà dove e spinto da cosa. Ed è proprio Rinda a scoprire lo scintillio dell’orecchino tra le labbra del cadavere di Aslem, mentre la luna piena all’improvviso si eclissa nella notte. Cosí quel monile nascosto diventa un segno per il ragazzo, il segreto di un lascito da rintracciare, e con Belek parte anche lui per il nord, a ricostruire la storia del padre e il vuoto che avverte in se stesso. Il nord è strano, misterioso, fa paura: Rinda, come Aslem, è un abile cacciatore, ma perde continuamente le impronte del cervo di cui tutti gli parlano lungo la strada, mentre incontra guaritori, sapienti, torturatori, una vecchia che parla con una volpe, un sultano ossessionato da un sassolino, le donne Şahmaran che custodiscono la lingua delle madri e il ricordo della scrittura che è stata loro sottratta. E ognuno gli racconta una storia, immergendolo in una corrente di verità – sul suo cammino, sulla sorte del padre e sul mondo – che si intrecciano, scompongono e ricompongono, un’onda di risacca che sfrangia di continuo gli orli del reale. Sono destini incrociati, o le forme incessanti di un sogno corale? La fascinazione del racconto e la forza narrativa della tradizione orale curda ricoprono le pagine di Nord come un sortilegio.


Nel villaggio Canbegi, un corpo nudo viene trovato in un burrone. Tra sgomento e curiosità, gli abitanti del villaggio cercano di recuperare la memoria dell’uomo tramite i suoi lineamenti: non ci sono dubbi, è Aslem, lo straniero, che dopo vent’anni fa ritorno da cadavere. Per tutto questo lasso di tempo ha lasciato la moglie e due figli, cresciuti senza conoscere il viso dell’uomo che dovrebbero chiamare padre ma che per loro è un fantasma, un arto mancante. E che dire della moglie? Lo ha aspettato e poi lo ha pianto, interpretando i segni e i sogni come una morte certa. Ed ora eccolo lì, estraneo come la prima volta che mise piede nel villaggio, portatore di storie e aneddoti che però per Rinda, suo figlio, restano echi di favole il cui suono si perde in un passato dilatato. Rinda non sa che fare: scoprire o meno questo volto paterno? Deve assecondare il suo istinto, la sua curiosità? Cosa si troverà davanti, una volta sollevato il velo? Quello che ancora non sa è che da allora nulla sarà come prima e inizierà per lui il più incredibile dei viaggi.

Quello che chiamiamo sogno non è che una storia dai mille interrogativi con poche risposte. Dice molto, ma insegna poco.

E’ nel riconoscimento del volto paterno, come uno specchio – oggetto ancestrale che ricorre spesso nella narrazione orale delle storie che Rinda ascolta e ascolterà – che Aslem si dona al figlio, si apre a lui e rivela un segreto che il figlio percepisce subito come potente, capace di scardinare il mondo; Aslem si mostra solo a lui, a quel figlio che non ha mai conosciuto ma che gli somiglia come una goccia d’acqua al punto da non sapere dove inizia lui e dove finisce l’altro. Rinda inizia così il suo cammino di ricerca proprio di questa linea di separazione e fusione al tempo stesso: chi sono io? Chi è mio padre? E’ attraverso il seguire le sue orme che ritroverò me stesso? E’ lì, in questo Nord così attraente e spaventoso, che scoprirò la verità? Ammantato di poesia e filosofia, di sensibilità, Rinda molla tutto senza guardarsi indieto perché il richiamo del Nord, della conoscenza, è fortissimo. Ricalcando le orme della cerva, capirà meglio l’uomo che è stato Aslem? L’uomo di cui non sa nulla in modo diretto ma che gli è stato sempre e solo raccontato, come un mito che si propaga attraverso la parola, ma dove sta il vero? Chi lo ha conosciuto? Perché ha intrapreso quelle strade e cosa cercava?

Il bagaglio di domande con cui Rinda parte è quindi profondissimo e pesante, al punto da poterlo soverchiare fino a fondere lui e il padre: è sua la ricerca o di Aslem? Nessuno lo sa eppure tutti glielo ricordano. I personaggi che incontra hanno conosciuto Aslem ma non sono capaci di distinguerlo dal figlio, deriso e torturato, ritenuto bugiardo proprio per questa somiglianza. E’ Aslem o Rinda? Non lo sa più. Forse è un sogno, come quello della Volpe Bianca. Forse la realtà è tutta un sogno da cui non potersi svegliare mai e allora cosa accade a chi muore nel sogno o se il sognatore si sveglia? Su questo e altre verità esistenziali si interroga Rinda con il Piccolo Sultano e i suoi saggi invitati, chiamati a discutere liberamente e a raccontare le proprie esperienze; questa è solo una delle tappe del viaggio di Rinda, un viaggio fatto di memoria e dolore, di sogni e disperati risvegli, di morte e sangue.

Rinda arriva ferito dal vecchio Glut: chi lo ha ferito e perché? Ogni parte del romanzo è un pezzo del suo viaggio, Rinda passa da capanne solitarie, da nevi, a palazzi di sultani, da caverne umide di sangue a donne guerriere. E in ogni posto, gli raccontano storie, miti, leggende in cui il confine tra vero e finzione è labile: chi decide dove si colloca? Chi è il primo narratore della storia? Chi stabilisce come essa debba concludersi? Sono storie che si perdono nella notte dei tempi in un mondo antico e dimenticato, nel quale tutti i personaggi, ad ogni modo, si interrogano sul senso dell’esistenza; questo mondo vive del racconto orale, queste storie non sono semplici favole ma rappresentano la trama stessa dell’universo, come scoprirà Rinda, chiamato quasi suo malgrado ad incarnare un viaggio spirituale che da individuale diventa universale. E’ un mondo che si fida dei segni della natura e che cerca nelle stelle il compimento dell’essere, il destino; e ovviamente c’è chi si spende affinché tale destino si avveri e chi in direzione contraria.

Guardo in alto, gridando come se fossi un bambino gettato nel buio di un pozzo. Il mio grido riecheggia. Deve esserci qualcuno, lì, uno che dal cielo sente le nostre urla o sa che siamo caduti in un pozzo scuro. Deve esistere, non perché ci aiuti, ma solo perché ci salvi dall’isolamento, deve esistere, per l’erba, per gli insetti, per gli uccelli.

E’ la storia di una figlia contesa, di un fratello Buono e di uno Cattivo, di una principessa innamorata e ingannata, di una stella che cade e di un mondo che muore. E’ la storia di una storia narrata dinanzi ad un falò, di un convivio di sapienti che si chiamano con altri nomi, di verità nascoste che trovano senso solo alla fine del viaggio di Rinda, un viaggio che lo conduce nella terra delle donne, e che terra. E’ forse il Nord di Rinda? E cos’ è poi questo Nord di cui tutti hanno paura e da cui nessuno fa ritorno? Un’idea, un posto, una persona?

Come cambia il senso di una storia quando si varia la voce narrante? Lo capisce Rinda quando la Nonnina Bionda, nei capitoli finali, gli spiega il fato di queste donne curatrici della lingua e del mondo stesso, umiliate da uomini che non hanno mai fatto nulla e si sono appropriati di tutto il lavoro femminile. Le loro parole, la scrittura, la loro arte, ridotte a polvere. E così, nelle favole hanno nascosto la speranza di un tempo di cambiamento. Che sia arrivato ora? Che sia davvero il tempo della Costellazione dei Pesci? Rinda sopporta torture atroci, fisiche e mentali, dubita, dubita sempre, di se stesso e di tutto ciò in cui crede, per accedere finalmente al suo compito, da quell’orecchino rinvenuto tra le labbra paterne a Loriya, congiunzione e chiave di tutto.

Onirico, lirico, suggestivo, poetico, il viaggio di Rinda, della Volpe Bianca, di Aslem, di Seydigül è un sogno sognante in cui spesso reale e fantasia si mescolano, in cui le ferite del sogno sono concrete, sono cicatrici di memoria, una memoria ancestrale che parla di tutto e tutti, alla ricerca di una verità che cambia forma ma mai sostanza. Bene e male, futuro e passato, ricerca disperata della propria identità che passa attraverso la fusione con un padre assente eppure così importante: Aslem ha lasciato a Rinda un’eredità che profuma di predestinazione, di salvezza, e Rinda ci si butta a capofitto perché è solo così che può conoscere suo padre e quindi se stesso. Una favola oniriforme commovente narrata da una penna sapiente che sembra ricostruire una ricerca ontogenetica dell’esistenza in cui si mescolano competenze filosofiche, riti, leggende, epopea personale che si fonde a salvezza del mondo, un mondo in declino, violento, nel quale solo le donne, con la loro lingua antica-madre, piangono i morti e proteggono il germe della speranza. Figlio – padre, Rinda non si guarda mai indietro, si smarrisce ma non si perde, ancorato al sogno di verità che trattiene tra lingua e gengiva e lo muove, lo spinge ad andare oltre. Oltre se stesso. Oltre i confini conosciuti.

Nel sogno transitiamo in un universo completamente a sé, raggiungiamo l’eternità, ma non possiamo rimanere lì per sempre. Come in un viaggio, non importa quanto ci spingiamo lontano, ma sappiamo che alla fine avremo una casa dove svegliarci e tornare.

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