I ragazzi della Blue Route

I ragazzi della Blue Route

Buongiorno, lettori! Oggi vi parlo del romanzo I ragazzi della Blue Route, scritto da Una Mannion (traduzione di Valentina Ricci) ed edito da Astoria Edizioni che ringrazio per la copia.


È l’ultimo giorno di scuola, all’imbrunire di un pomeriggio di giugno. Libby (voce narrante) e i suoi quattro fratelli sono in macchina, alla guida la madre Faye, nervosa e stanca. All’improvviso, dopo un battibecco con la dodicenne Ellen, Faye ferma l’auto nel mezzo del nulla, obbliga la figlia a scendere e riparte con uno stridore di gomme. Sta calando il buio e per raggiungere casa ci sono quasi dieci chilometri: come farà Ellen a cavarsela?
Dopo ore di tensione la bambina riappare, ferita e sotto shock. Si scopre che, dopo aver fatto l’autostop, Ellen si e  gettata in corsa dall’auto di un adulto spaventoso, dai capelli lunghi e biondi “come quelli di una Barbie”, che aveva cominciato a molestarla.
L’accaduto viene custodito come un segreto tra le sorelle, che medicano Ellen e se ne prendono cura senza che la madre sospetti alcunché. Tutto sembra concludersi al meglio, ma nessuno immagina che la decisione impulsiva e insensata di Faye cambierà la vita della sua famiglia per sempre.
Ambientato nell’America profonda degli anni ottanta, tra genitori che non si assumono le proprie responsabilità e ragazzi che hanno un’imperfetta, spesso disastrosa conoscenza del mondo adulto, questo romanzo è un viaggio da brivido in un contesto familiare difficile.
Una narrazione talmente coinvolgente che a volte bisogna ricordarsi di respirare.


E’ una sera di giugno, nel 1981: Libby, la narratrice della storia, spalla a spalla con la sorella dodicenne Ellen al cui fianco siede Thomas, unico maschio, la piccola Beatrice, la quasi diciottenne Marie e la madre Faye stanno percorrendo un’autostrada, di ritorno a casa: le vacanze estive sono appena terminate, la macchina è piena di zaini e cartelline, la madre guida “come una pazza”, è visibilmente arrabbiata con Ellen che non molla la presa sulla richiesta di frequentare un corso di arte durante l’estate. Lei e Thomas si rimbrottano, si infastidiscono reciprocamente fino a quando Ellen sputa fuori le parole fatidiche, parole cariche di rabbia e risentimento, punitive, che hanno, però, un effetto imprevedibile persino per Libby e gli altri, ormai abituati all’idea di avere una madre piuttosto che alla sua reale presenza. L’odio urlato da Ellen si tramuta in una spaccatura, in un gesto di rottura: Faye ordina alla figlia dodicenne, piccola al punto che sembra ancora bambina, le cui vertebre si possono contare attraverso il tessuto dell’uniforme della scuola cattolica che lei e gli altri frequentano, di scendere. Nella notte. Il gelo cala prepotente nella macchina ma di fatto nessuno si impone sulla madre per intimarle di fermarsi; arrivati a casa, ognuno riprende con i propri impegni, anche se il pensiero di Ellen da sola al buio che cerca la strada di casa è ovviamente cosa viva, pulsante di preoccupazione e di ansia. Libby deve fare da babysitter ai figli della signora Boucher, l’unica altra donna che conosce, oltre sua madre, ad essere divorziata sebbene gli effetti del divorzio siano diversissimi nelle due donne; come nota spesso Marie, la classe economica e sociale fa la differenza in queste cose. Marie ha le sue teorie anche sulla migliore amica di Libby, Sage e sugli “altri” benestanti della zona, più interessati ad “abbassarsi” con la classe proletaria che altro; Libby non la pensa così ma invidia all’amica la sicurezza che le deriva, secondo lei, dall’avere una famiglia solida. Ecco, è questo che a Libby manca: la realtà di un nucleo famigliare compatto a fronte di una disgregazione sempre più evidente che vive nella sua famiglia. Libby percepisce quest’angoscia di cambiamento in ogni momento che condivide con la sua famiglia, la sensazione che tutto sia perduto, cambiato, impossibile da recuperare ed aggiustare, e che a nessuno oltre a lei davvero importi. Non di certo alla madre, che torna da lavoro e non si preoccupa di cose come cucinare e pulire, si chiude nella sua stanza e nessuno deve infastidirla, una madre che sembra amare solo la piccola Beatrice, perchè? Non se ne cura Thomas, chiuso in se stesso e anche lui, secondo Libby, destinato a serrare la sua porta; né se ne importa Marie, e questo è forse quello che Libby percepisce come il maggiore e più duro dei tradimenti, lei che se ne andrà e che lo comunica en passant, come se non fosse l’ennesimo scossone nella loro vita. Per Libby è impossibile capire che Marie si è comportata come un genitore ma non lo è, è anche lei figlia, bisognosa di trovare il proprio posto in un mondo difficile, la propria identità, che sia indie o punk, bisognosa di quell’affetto che Faye non dice mai, ma che forse prova a mettere in atto a modo suo. Faye è oggettivamente una madre assente ma la narrazione di Libby non prende minimamente in considerazione il motivo di questa assenza che sembra provenire dalle viscere del tempo, da un “prima” in cui già c’erano problemi tra lei e il padre di Libby: perché i due hanno divorziato? Libby sembra addossare tutte le colpe alla madre, rea di aver tradito, e condanna ogni atteggiamento della donna; non solo, è praticamente impossibile riuscire a far ragionare Libby su questo aspetto della sua vita famigliare. Quando l’amica Sage ci prova, chiedendo a Libby se secondo lei la madre meritasse almeno un pò di felicità, la ragazza si chiude, reagisce fuggendo fisicamente dalle parole dell’amica; peggio, se Sage tocca il padre, la sua idealizzazione, Libby la punisce rivelando segreti che non sono suoi. Per la ragazza la perdita del padre è ovviamente una ferita aperta e dolorosamente attuale, qualcosa che non può e non vuole elaborare anche per il clima famigliare: dell’amato padre irlandese non si parla, mai più. Così nel ricordo solitario di Libby l’uomo è sempre presente, infallibile, dispensatore di saggezza e con una visione precisa dell’America e dalla situazione degli emigranti come lui; è l’uomo che ha regalato per Natale un libro ad ogni figlio, pensato con amore per chi avrebbe ricevuto quel dono. Libby si chiede, ad esempio, se ama gli alberi perché le piacciono davvero o perché suo padre credeva le piacessero e attraverso questo suo amore, tenga in vita una parte di lui; non permette a nessuno di sporcare il suo ricordo, né di mettere in dubbio l’uomo e la relazione che poteva avere con sua madre, che appunto resta avvolta nell’ombra del ricordo di parte.

La notte che Ellen scompare succede qualcosa, una rottura rispetto a un momento precedente in cui tutto sembrava vagamente recuperabile, nonostante le difficoltà del dolore e l’assenza genitoriale, ma dopo l’evento la spaccatura è profondissima: Libby, Marie ed Ellen creano una sorta di alleanza da cui escludono non solo Thomas ma soprattutto la madre, se per proteggerla, come sostengono, o per punirla, non è dato saperlo. Hanno paura delle reazioni materne, di quello che potrebbe succedere se Faye sapesse cosa è accaduto ad Ellen quella notte eppure la madre non chiede nulla: Ellen torna illividita, sotto shock, ma lei pare non accorgersene, presa da, come pensa Libby, la sua relazione con il fantomatico Bill, mai conosciuto da loro. In che guai caccerebbero Faye se si venisse a sapere cosa ha fatto? Il peso di questo segreto, però, grava sulle spalle di Libby soprattutto quando Marie va a vivere a Philadelphia e dopo che la maggiore ha coinvolto Wilson, un ventenne di cui tutti in montagna hanno paura. Attorno a Libby e alla sua famiglia, si muovono altri coetanei dei ragazzi e adulti, una comunità piccola fatta di voci che si susseguono, di segreti e tradimenti, di invidie e prime gelosie, di apparenze.

Tesa tra tenere il segreto, proteggere la sorella Ellen da questo “uomo Barbie” che le ha fatto del male, e vivere comunque la sua vita da adolescente, Libby ci racconta le difficoltà della crescita in una storia raccontata con una penna avvincente e coinvolgente; l’autrice è capace di ricreare un contesto sociale solido, con riferimenti costanti alla cultura pop dell’epoca, e al tempo stesso la transizione di Libby, la sua adolescenza, le prime cotte, la sua rigidità, le sue amicizie in un mondo ristretto, con le sue regole sociali, in cui Libby deve imparare a muoversi. Libby si sente sola, abbandonata, arrabbiata, delusa dagli adulti e dagli amici, spaventata, ma soprattutto si scopre coraggiosa e capace di tutto per proteggere chi ama, scopre anche che spesso la chiave per sopravvivere è andare oltre le apparenze e avvicinarsi agli altri senza pregiudizi. Un romanzo intenso che avrei voluto continuasse ancora e ancora, per scoprire cosa succede a questa famiglia che cerca dolorosamente di restare a galla, i cui componenti devono affrontare il lutto, ognuno a modo proprio, e il fatto che la vita continua. Nelle pagine finali, la narratrice Libby, una voce a cui mi sono inevitabilmente affezionata, offre un piccolo sprazzo di futuro: in quelle righe si annida la malinconia profonda per qualcosa che si è perso, per un’armonia anche solo apparente che ora non potrà più tornare, non solo per gli eventi esterni che accadono e per le loro conseguenze, ma perché la vita è questo, è un percorso in salita. L’estate in cui Ellen viene abbandonata per strada dalla madre rappresenta la fotografia di un momento, forse l’ultimo che ha visto tutti vicini – o almeno così lo percepisce Libby -, un’instantanea di una vita che per quanto fosse difficile almeno sembrava vera, vissuta. Dopo, c’è tutto il resto, sfumato sullo sfondo di un bosco che sa di casa, di infanzia, di sogni e speranze, di amicizie e posti segreti, di nostalgia per un’innocenza perduta. Questo romanzo parla di famiglia, di affetti, di segreti e bugie, di una comunità americana, di sigarette rubate e falò attorno ai quali sperimentare l’indipendenza, di legami fortissimi che nemmeno la morte può annullare e di una violenza così silenziosamente vicina da far rabbrividire; la voce di Libby è autentica, credibile nelle sue fragilità, nelle sue rigidità comportamentali e nelle sue paure, nella sua esperienza del male e della violenza, è la voce di una ragazza che si sente smarrita, senza il riferimento di un padre morto e di una sorella maggiore che se ne è andata, che si sente responsabile per gli altri e sola, che ha paura di non avere gli strumenti per prendersi cura degli altri e che in fondo non può farlo perché anche lei ha bisogno di qualcuno che la accudisca.

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