Le gattoparde

Le gattoparde

Buongiorno, lettori! Oggi vi parlo del romanzo Le gattoparde – Il tramonto di un’epoca in una grande saga sicialiana, scritto da Stefania Aphel Barzini, con la prefazione di Fabrizia Lanza, edito da Giunti Editore. Ringrazio lo Studio Dispari e la Casa Editrice per questa collaborazione.


Villa Piccolo, la straordinaria residenza di campagna dell’aristocratica famiglia Piccolo, arroccata in cima alle colline di Capo d’Orlando e immersa in uno splendido parco di oltre venti ettari, fu il luogo in cui la baronessa Teresa Mastrogiovanni Tasca Filangeri di Cutò si ritirò quando il marito Giusep-pe Piccolo di Calanovella fuggì a Sanremo con una ballerina. Lì visse con i suoi tre figli, Lucio, Casimiro e Agata Giovanna, che vi abitarono fino alla morte. Agata, ultima superstite e vestale della villa, ci racconta la storia della sua vita, della sua famiglia, della sua epoca. Lei, testimone di un mondo che fu, decide di ricostruire questa trama esclusivamente attraverso le vicende delle donne che l’hanno tessuta. Quando il sipario si apre su Agata siamo nella seconda metà del Novecento, ma la sua memoria ci conduce fino alla Sicilia postunitaria, a un momento cruciale della storia di quella terra e del nostro Paese. Tutte le certezze vacillano per l’aristocrazia terriera e le donne Piccolo, come altre loro simili, devono affrontare il cambiamento. Le vediamo lottare per tenere insieme ciò che resta del proprio mondo, resistendo al dissolversi dell’universo che conoscono. Mentre gli uomini di casa, i Gattopardi, assecondano il declino senza porvi argine e con rassegnazione. Le vediamo stagliarsi sullo sfondo di una vita domestica e di società fatta di riti e di fasti, di passioni e di compromessi. Ma anche di lutti e tragedie dettate dalla storia – il terremoto di Messina e le bombe su Palermo – e da episodi di violenza efferata. E ci immergiamo nell’atmosfera trasognata dell’oasi di Villa Piccolo, in cui Teresa crea un bizzarro cenacolo di arte, cultura e letteratura, dove Giuseppe Tomasi di Lampedusa, suo nipote, concepirà la sua opera eterna e passeranno in visita, tra gli altri, Montale, Cederna, Pasolini, Sciascia e Consolo, attratti dalla compagnia, così come dal cibo prezioso che Agata porta in tavola.


Agata Giovanna Piccolo di Calanovella è sola nella villa di Capo d’Orlando, è l’ultima erede di una dinastia al tramonto, proprio come lei, costretta ad osservare quel lento declino che ha fatto spazio al progresso, a due Guerre Mondiali, ai cambiamenti sociali e di costume; Agata sente il peso di essere l’ultima, testimone di memorie che si sfilacciano nella trama del tempo, e quindi, pur con i suoi acciacchi, ricorda la storia di una famiglia di donne forti, passionali, a partire dalla nonna – maman – Giovanna Filangeri principessa di Cutò, madre di cinque figlie femmine ( alla vita adulta purtroppo arriveranno solo quattro ma il ricordo di Pia non scomparirà mai dai cuori e dai corridoio di Santa Margherita) e di un figlio maschio, Alessandro detto il Principe Rosso per le sue simpatie, destinato a scialacquare in pochissimo tempo tutto ciò che i suoi avi hanno costruito. Giovanna non ha avuto una vita facile: figlia nata da un secondo matrimonio, dopo due fratelli illegittimi, eredita un patrimonio immenso che però le viene per anni negato dal comune di Santa Margherita; nel frattempo lei studia all’estero, a Parigi, e la Francia continuerà ad esistere nella sua vita siciliana sia nella cucina che nella lingua. Alle figlie parla spesso in francese, “la lingua della gioia” mentre associa il siciliano alla “parlata delle liti, dell’eredità, dei conti” per i suoi trascorsi; e fa ammattire i cuochi per le incursioni della cucina francese, troppo pesante e ampollosa per i suoi cuochi ma che lei adora e pratica. Giovanna sin da subito, nel racconto di Agata, si impone per essere appunto una figura mitologica: la nipote non l’ha conosciuta ma sua madre e le sue zie ne hanno così parlato mantenendo un ricordo talmente vivido che ad Agata sembra cosa viva, figura a cui rivolgersi per dubbi e consigli; Giovanna ha conosciuto il dolore indicibile di una madre che sopravvive alla malattia di un figlio, evento che in un certo senso segna la prima svolta in questa famiglia, in questo suo amato gineceo ( fa eccezione solo Alessandro). La morte di Pia scuote le sorelle e chiude in se stessa maman, ma è con la malattia della matriarca e la sua morte che questo nucleo inizia a sparpagliarsi. Agata ripercorre quegli anni, i matrimoni falliti delle zie, gli eventi devastanti che le colpiscono: Lina e il terremoto di Messina, Giulia e la colpa di essere bellissima e di avere voglia di un amore travolgente, Maria che non si sposa mai ma che ha problemi mentali sempre più ingravescenti, Bice e il suo noioso marito.

Agata, seduta nella grande casa ora vuota, piena di spiriti e fantasmi che fanno tanto paura a Rosa, traccia nel ricordo il senso e il segno di questa sua famiglia caotica e disordinata e attraverso essa ci parla della sua Sicilia, dei cambiamenti che incontra, del clima che si respirava, di quella nobiltà aristocratica che ha ereditato e il cui retaggio è ancora presente (Rosa si rivolge a lei chiamandola “baronessa”). Ne emerge un ritratto interessante e coinvolgente, fatto di luci ed ombre, di temi senza tempo, di amori intensi e di pettegolezzi, di un cibo conviviale fatto di abbondanza e voluttuosità. La famiglia Piccolo, e prima ancora quella di Teresa e delle sue sorelle, rappresenta in pieno la società dell’epoca e le sue contraddizioni: le feste da ballo e i gioielli ricercati fanno da contraltare al dialetto dei dialoghi, i ricchi fanno beneficienza andando a guardare i poveri messi in mostra in un teatro, costretti ad abbuffarsi sotto gli occhi dei loro benefattori, ad esempio. E’ una famiglia dove l’amore trova espressione non negli atti fisici, non in abbracci o baci, ma in un prendersi cura che passa attraverso telefonate, visite, riguardi: i legami tra le sorelle, pur con movimenti altalenanti durante le loro vite, sono indissolubili. Non è in discussione che Lina corra a prendersi cura di Giulia, o che Maria prima e Bice poi vadano a vivere da Teresa quando non riescono più a stare sole: in modo molto naturale, fanno parte di qualcosa di solido a livello di famiglia nucleare mentre all’esterno, i pettegolezzi, le perdite economiche e poi i cambiamenti derivanti dalla Seconda Guerra Mondiale, la Famiglia, da intendersi a mio avviso come nome e titolo, come manifestazione esteriore di appartenenza, si sgretola. E proprio come in ogni famiglia, ci sono alleanze e simpatie, preferenze, e c’è il rimorso e il rimpianto per qualcosa che si poteva fare: a questo Bice pensa negli ultimi momenti della sua lunga vita, all’amata sorella Giulia, così diversa da lei; pensa a quanto l’abbia detestata, lei così passionale e vitale, mentre Bice è stata costretta ad un matrimonio scelto da maman, noioso, spento. Famiglia è anche questo, sono cugini legatissimi tra loro, sono nuove vite e morti, matrimoni falliti, tracolli finanziari, pranzi infiniti, liti furiose, amori viscerali, protezione: la villa di Santa Margherita per Teresa e le sue sorelle rappresenta tutto questo, è il luogo della memoria, dell’infanzia, che col tempo si fa mito, leggenda … e che Alessandro svende senza dire nulla alle sorelle. Negli ultimi anni di Teresa, Agata e i fratelli si beano di quella luce, di quei racconti fatti dalla “mammuzza“, coacervo di memorie.

Nella seconda parte del volume, Agata recupera i suoi vecchi diari del periodo in cui si trasferiscono a Capo d’Orlando: le sue parole sono cariche di emozioni e di riflessioni che la donna fa sulla sua famiglia e sul mondo in generale. Ci racconta del suo amore per le piante, con cui parla, per la cucina, per i fratelli e il cugine Giuseppe Tomasi di Lampedusa; i loro momenti difficili, quando sia il fratello Lucio che il cugino sono alle prese con la scrittura, testimoni di un declino che non riescono a fronteggiare e quindi costretti – da loro stessi – a proseguire questa specie di esilio alla Piana. Il mondo ormai sembra non aver bisogno dei principi ma cosa possono fare loro? Con sguardo anche critico Agata ci dice che nessuno della sua famiglia ha mai lavorato: Giuseppe ha bisogno di dare un senso a quello che hanno vissuto, alle tragedie e alle perdite che passano inesorabilmente anche dalla perdita dell’amato Palazzo Lampedusa nei bombardamenti della Guerra. E per farlo, rievoca un passato di gloria e sfarzi, di importanza e ruoli sociali.

Agata è una narratrice figlia del suo tempo e del suo contesto, a volte rigida e a volte ingenua: è una donna che non ha mai abbandonato la “bolla” creata da sua madre, una protezione senza fine che però di fatto l’ha esclusa dalla possibilità di una vita reale relegandola in questo luogo magico in cui coltiva piante esotiche e cucina piatti prelibati. La sua vocazione non può che essere quella: tempi dilatati in cui lei e i suoi fratelli sembrano non crescere mai. Ma il tempo invece, quello reale, scorre, e i tre fratelli sono senza erede, senza futuro. Che ne sarà dei Piccolo dopo di loro?

La penna dell’autrice come un abbraccio delicato cinge questi corpi in cui si fondono storia e reale, accarezza con semplicità il declino di un’ epoca scorto attraverso le vicende funeste di una famiglia che vanno ad intersecarsi su un tessuto storico come quello della Seconda Guerra Mondiale, evento che mette fine al mondo che Agata Giovanna e la sua famiglia conosceva e padroneggiava.

Con la fine della guerra, si ritrovano spodestati non solo economicamente ma sono soprattutto privati di un privilegio, di quell’aura che la ricchezza e ancor più il titolo nobiliare forniva: ora, sono tutti uguali, come dirà Bice all’amato figlio Giuseppe quando il 2 giugno sono chiamati a votare. Ora non è più una principessa, e in questa frase si racchiude il sentimento di una nobiltà che perde il suo posto nel mondo, una fetta di società che non sa come reagire a questa constatazione perché ha sempre vissuto in questo mondo che li venerava al sol passaggio. Declino e destino sono fusi assieme.

Terremoto, guerra, bombe, fame, hanno sradicato gli ideali che la borghesia siciliana possedeva e si incarnava in famiglie come quella dei Filangeri. E’ lo sgretolarsi dolceamaro di un universo cui Teresa cerca di sottrarsi rifugiandosi alla Piana, luogo incantato e ovattato, quasi dimensione “altra” in cui i figli e lei possono essere “pazzi”,”strani”, diversi da quell’aristocrazia perbenista che le ha tolto tutto; ma c’è una cosa che riesce a raggiungere “mammuzza” (come la chiama Agata) ed è la morte, con lo strano e viscerale legame che ha con la Sicilia (come sottolinea spesso Agata stessa). La morte sembra inseguire la sua famiglia, sin dall’infanzia di Teresa, un’ombra che ha lasciato tracce in Maria e Giulia, morti tragiche ma anche nei diari di Agata morti che arrivano in vecchiaia e non per questo sono meno dolorose per chi resta; la morte poi si ammanta del fascino folcloristico della terra siciliana, elemento imprescindibile con cui sin da piccoli ci si relaziona. Agata non ne ha paura, e come successo per altri personaggi della sua storia, alla fine c’è la famiglia, ancora e sempre, ad attenderla oltre il varco della vita, tutti riuniti, tutti uguali.

La storia di questa famiglia è tutta, in realtà, una storia di echi e ciclicità, di figure che tornano, perché Teresa ricorda molto sua madre, quella maman che si erge a protettrice della famiglia e come la stessa figlia farà da padre e madre ai suoi figli; le unisce la cucina, il destino, la responsabilità di fare da contraltare a uomini assenti – quando va bene – o spendaccioni – negli altri casi. Uomini che dilapidano patrimoni ingenti, inimmaginabili in lassi di tempo brevissimi, meteore avvezze alla bella vita, al gioco e alle donne, che finiscono come Alessandro a morire in povertà estrema, senza più nome, titolo, dignità né affetto familiare. Tutti gli si sono rivoltati contro: chi è causa del suo mal, pianga se stesso insomma. Non solo, anche Teresa come maman costruisce un rapporto esclusivo con i figli, vuoi per causa di forza maggiore ( uomini emotivamente e fisicamente assenti), vuoi per predisposizione caratteriale alla guida quasi autoritaria di una famiglia; e come Teresa ha amato visceralmente sua madre così Agata e i suoi fratelli la seguono in quello che sembra un lunghissimo esilio dalla nobiltà che conta, il ritiro quando hanno perso tutto alla vita contadina che pure li stupisce e regala una nuova esperienza. Ma al tempo stesso l’isolamento prosegue quel lavoro iniziato già a Palermo, quella “bolla” che li rende diversi dagli altri, che li fa vivere in uno stato costante di sospensione. D’altronde, se hanno lasciato tutto è proprio per impedire che gli “uragani” li colpiscano, dirà Agata alla madre morente, dove gli uragani rappresentano le contingenze della guerra e del reale. Teresa però è anche l’unica delle sue sorelle ad aver avuto il coraggio, ricordando sempre il periodo storico in cui hanno vissuto, di ribellarsi ad un marito che spendeva i suoi soldi e la tradiva ripetutamente, cacciandolo di casa e impedendogli di vedere i figli; certo, come nota Agata stessa, “mammuzza” continua a mandargli lunghe lettere in cui parla al padre di loro, è una punizione o un modo per non sentirsi lei sola? Quello che sappiamo è che Teresa fa qualcosa, agisce e reagisce, ne ha abbastanza di quella vita in cui non si riconosce e se ne va a Capo d’Orlando con i suoi figli.

Qui a Capo d’Orlando vivono una vita campestre fatta comunque del privilegio dei possedimenti a fronte di altra gente che muore ma vivono anche vite che sembrano messe in scena, vite dilatate, “slabbrate” dirà Agata, evanescenti, con in sottofondo l’eco di quello che accade altrove, convinti che mai nulla potrà cambiare il loro mondo. Ma la realtà, il cambiamento, li travolge, li devasta, arriva alla Piana, infine.

Magistralmente introdotto dalla prefazione di Fabrizia Lanza, mescolando studio dei documenti e fantasia, l’autrice ci regala il ritratto di una famiglia siciliana, legami al femminile per una storia di donne forti e donne fragili, di donne combattive, affamate d’amore, disperatamente desiderose di proteggere quel bene importantissimo che sono gli affetti, la famiglia, oltre che il patrimonio, abilmente sperperato da questi uomini che, nonostante questo, hanno potuto raccontare la loro storia, mentre di queste donne se ne sa poco e nulla. La voce di queste donne, allora, narra un’epoca, un’idea di mondo e di società, una terra: è voce di terra madre, di dolore, di cadute e di rialzate, di spiriti e fantasmi arcaici che vivono di notte, sono già loro, storia.

[…] è un dono che abbiamo, quello di vivere senza preoccupazioni e pensieri; i nostri sono ricordi inusuali, siamo parte di un mondo che non esiste più, coltiviamo le piante, dipingiamo, scriviamo poesie non per lasciare un segno, ma per fare in modo che questo mondo non scompaia. Vivere sopraffatti dal passato ci aiuta a non estinguerci.

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