Le omissioni

Le omissioni

Buongiorno, lettori! Oggi vi parlo del romanzo Le omissioni, scritto da Emiliano Monge ( traduzione di E. Tramontin) ed edito da La Nuova Frontiera, che ringrazio per la copia.


TRAMA

È il destino, inteso come un’eredità che si trasmette silenziosa e ineluttabile nella famiglia dello scrittore, a tirare le fila in questo romanzo. “Le omissioni” ci racconta la storia di tre uomini che si ritrovano, in modo diverso, a fare i conti con un identico impulso primordiale che li spinge a fuggire tagliandosi ogni ponte alle spalle. È il nonno, Carlos Monge McKey, il primo a sentire questo richiamo e a mettere in scena la sua morte per riapparire, all’improvviso, diversi anni dopo. In seguito il padre, Carlos Monge Sánchez, interpreterà a suo modo il retaggio familiare sparendo una prima volta per abbracciare la lotta rivoluzionaria e, da adulto, iniziare una seconda fuga al rallentatore. Infine toccherà al figlio, Emiliano Monge García, intraprendere una fuga più sottile, psicologica, costruendo un mondo fatto con gli scampoli delle vite altrui. Le gesta di questa stirpe si dipanano nell’arco di un secolo e s’intrecciano con la storia del Paese che abitano. Dalla nascita del narcotraffico ai gruppi guevaristi fino ai giorni nostri gli uomini della famiglia Monge inventano vite e morti, lottano con gli altri e con se stessi per trovare il loro luogo nel mondo.


Carlos Monge McKey lavora in una cava e un giorno, all’improvviso, mette in scena la propria morte, sconvolgendo la vita della moglie e dei figli. Chi resta, è costretto a trasferirsi, a vivere con lo zio e i figli di lui, che diventa per Carlos Monge Sànchez e i suoi fratelli un nuovo padre, fino a che, all’improvviso come è morto, il padre torna. E’ proprio Carlos Monge Sànchez a ricostruire la storia di quegli anni, almeno nella prima delle diverse parti cui il romanzo si compone, sollecitato da Emiliano, suo figlio. Si dipana una complessa storia familiare fatta di abbandoni e fughe, metaforiche, mentali e reali. Chi è Carlos Monge McKey? Perché ha finto la propria morte, cosa ha fatto in quegli anni di morte apparente, dove è stato, perché è tornato? Queste sarebbero domande legittime per un figlio che vede ricomparire il padre, ma pare che per Carlos Monge Sànchez non siano state così fondamentali; peccato che abbia ereditato dal padre quel sentire che non riescono a definire e che li porta ad andare via, a sottrarsi a vite che sembrano essere capitate piuttosto che frutto di scelte personali. Così anche per i figli di Carlos Monge Sànchez il nonno è un fantasma, e il padre inizia a perdere voli da viaggi di lavoro sempre più frequenti. La storia viene raccontata da Emiliano, dal diario di Carlos Monge McKey e da Carlos Monge Sànchez: ne emerge uno spaccato fatto di emozioni, di vicissitudini, un affresco familiare potente. Ognuno affronta il vuoto lasciato dal proprio padre, in una catena infinita di mancanze, di accuse: chi fugge, chi mangia troppo, chi beve, chi scolpisce la pietra, chi bestemmia. Solo parlarsi, a quanto pare, sembra un modo troppo difficile per affrontare la questione. Meglio barricarsi ancora dietro queste evasioni e fingere, fingere sempre. Gli affetti, nascosti, vengono usati come armi per ferire, per provocare: così Emiliano rinfaccia al padre di avere un rapporto con quel nonno che è stato a sua volta un padre assente, mentre come figlio scopre un lato di Carlos Monge Sanchez incredibile e che invidia e come nipote, alla fine, deve fare i conti con un’ossessione per il nonno che mostra la sua vera essenza solo quando, quasi vigliaccamente, non può rispondere a domande; ritorsioni emotive, pesanti, narrate con un flusso di parole che richiedono attenzione per comprendere da chi siano state dette e a chi vengano riferite. Come ad esempio, seguire Emiliano nel suo complesso peregrinare di pensieri, di vite altrui prese in prestito, di voli pindarici, di esistenze rubate e di viaggi mentali, di rimaneggiamenti del reale fino a plasmare una nuova realtà, o tenere a bada periodi che condensano anni di vita, esperienze personali, per riportare il lettore al momento in scena con uno sguardo, però, su quel vissuto.

E gli accadimenti non sono mai la storia. Neanche i fatti sono la storia. La storia è la corrente invisibile che smuove tutto sullo sfondo. La storia è il perché mio nonno intuiva, come l’avrebbe intuito un animale, che se ne doveva andare. Proprio come dovette fare mio padre, molti anni dopo. E come ho fatto io, giunto il mio momento.

L’autore fotografa istanti, cattura momenti salienti che saturano le esistenze dei protagonisti. Le fotografie, però, sono una rappresentazione della verità e la famiglia Monge, da generazioni, pare lottare molto con questo concetto: bugie, menzogne, silenzi, assenze. Giocano a fare la famiglia, eppure, vivono in una terra che fa del sangue un legame ancestrale che non deve essere tagliato, a qualunque costo. Così si accumula la colpa, la vergogna, l’inadeguatezza, l’idea di un retaggio insito nel nome che si porta; un’eredità fatta di silenzi, di vuoti interiori, di disagio psichico vessato, manipolato, negato, inventato. Chi sono, davvero, i Monge? Quali sono questi segreti che sembrano così difficili da rivelare? Una famiglia che si muove sullo sfondo di un Messico turbolento che entra nelle vite di questi personaggi: corruzione, droga, abuso di sostanze, politica.

I taccuini di Carlos Monge McKey, le sculture di Carlos Monge Sànchez, le malattie di Emiliano, i presentimenti, le ossessioni; e i cugini, gli zii, la scuola, gli amici, l’università, la lotta politica. Di cosa sono fatte le esistenze? Le storie, che piacciono tanto a Emiliano?

E il fatto è che questa, la storia, non è altro che l’ombra del linguaggio, il cui corpo è sempre un’immagine. O, piuttosto, questa, la storia, l’ombra del linguaggio, il corpo dell’immagine, permette che questi, gli avvenimenti, che non sono altro che parole intrecciate, filtrino la luce che ci abita.

Pagina dopo pagina, il lettore dovrà scoprire l’essenza di questi personaggi, prima attraverso gli occhi degli altri attori, poi, tramite il racconto diretto. Come cambia la prospettiva, ad esempio, guardando alla finta morte di Carlos Monge McKey quando si legge il suo diario pieno di una fragilità dolorosa, di angosce e ossessioni, di manie persecutorie, di colpe assurde, di un male di vivere che si traduce in un vuoto senza nome e senza fondo che è impossibile da sviscerare.

Mio padre, quel bastardo, ci ha fatto diventare, ci ha condannato a essere degli estranei. Ma noi, con la nostra paura, porco cazzo, abbiamo fatto in modo che durasse per sempre. Noi abbiamo deciso di essere degli sconosciuti.

Come cambia quando si scopre, tramite il dialogo tra Emiliano e Carlos Monge Sànchez, il passato dell’uomo, intriso di lotte politiche, di valori e ideali, di affetti e sentimenti difficili da esplicare in una famiglia che ha dovuto convivere con il dolore di una morte (finta), e poi con il fingere che essa non sia mai avvenuta. C’è tutta una liturgia dei dolori e dei segreti che va rispettata. E a questo si aggiunge la vita, le esperienze individuali che esulano dalla famiglia stessa. Ne viene fuori un ritratto dell’incomunicabilità purtroppo tipica di molte famiglie, dove il silenzio ha una sua voce, dove si soffoca il conflitto perché lo si teme, dove si omette, con l’infondata convinzione che se non si parla di qualcosa si potrà fingere che non sia mai successa.

Ecco, nel romanzo, l’autore ci mostra le conseguenze di tale convinzione: come un filo pronto a spezzarsi, come una bomba pronta ad esplodere, le emozioni, i rimpianti e i rancori, avvelenano i rapporti. Tra spunti di riflessione e flussi di coscienza spietati, lo stile dell’autore è capace di mettere a nudo pregiudizi, paure, drammi familiari; l’autore parla non solo delle tre vite dei protagonisti ma di tutte quelle persone che per forza di cose entrano in contatto con loro e ci invita di conseguenza a fare i conti con i nostri fantasmi, con i nostri miti familiari, eredità intergenerazionali che pesano. La famiglia viene analizzata nelle sue dinamiche più sottilmente psicologiche: quanto le attribuzioni caratteriali, le proiezioni narcisistiche, ci condizionano? Sei come tuo padre/ non sarò mai come mio padre: cosa ci portiamo dentro e dietro?

Figlio di un morto finto, falso vivo.

Cosa significa, allora, abitare la propria vita? Felicità, libertà, quella sensazione di essere nella propria pelle, di percepire tutto ciò che succede, che si sceglie, come giusto per se stessi. I Monge si sono interrogati, si sono arrovellati, aggrappati, a quelle frasi buttate un pò per caso in famiglia, a quei miti che si tramandano, a quelle voci che ingigantiscono, che attribuiscono meriti e colpe, e hanno fatto proprio questo bagaglio senza mai sentirlo davvero. Senza appartenenza, la famiglia diventava luogo del disprezzo, persone da odiare, eppure, un legame. Un nodo centrale della storia, complesso, analizzato con grande sensibilità dall’autore e che mi ha lasciato, dopo l’ultima pagina, tanto su cui riflettere, tanto da digerire. Un miscuglio di emozioni, difficili da districare, proprio come è stato difficile per Carlos Monge McKey, Carlos Monge Sànchez, per Emiliano, per Rosi e Dolores, per Ernesto e Diego. Rabbia, tristezza, amarezza, delusione, paura, malinconia, pena, tenerezza.

La famiglia Monge, alla fine, appare essere ingombrante: in questo nucleo, si fa fatica ad avere il proprio spazio, si fatica ad essere semplicemente bambini o adolescenti perché si viene subito responsabilizzati, si condivide tutto ma solo in apparenza. Di fatto, ognuno è impegnato in un’esistenza personale, in una commedia, in un gioco di finzioni. E qualcuno, in questo gioco, può rischiare di perdersi e non ritrovarsi. I Monge cercheranno per sempre un luogo – fisico e non – in cui poter essere se stessi davvero o poter finalmente decidere chi voler essere. Quando anche l’ultima maschera cade, la verità è nuda, cruda e crudele; scendere dalla giostra emotiva dei Monge senza commuovermi è stato impossibile.

Ho scritto di me nel modo in cui ho vissuto tutta la mia vita: a veri e propri pezzi.

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