Il paese degli altri

Il paese degli altri

Buongiorno, lettori! Oggi vi parlo del romanzo Il paese degli altri, scritto da Leila Slimani ( traduzione di Anna D’Elia) ed edito da La nave di Teseo, che ringrazio per l’invio della copia.

TRAMA

Nel 1944, durante la guerra, Mathilde, una giovane alsaziana, s’innamora di Amin, un soldato marocchino che combatte nell’esercito francese contro l’occupazione nazista. Lui è affascinato dalla vitalità e dalla libertà di Mathilde; lei è sedotta dalla bellezza e dalla sensibilità dell’uomo. Al termine della guerra decidono di sposarsi e di trasferirsi nei dintorni di Meknes, in Marocco, dove Amin aveva ereditato un terreno che sognava di trasformare in una fattoria moderna. Ma l’impatto con la nuova realtà è traumatico per entrambi. Mathilde deve imparare a vivere in un mondo fatto di regole che non comprende e non condivide, mentre Amin scopre a sue spese che non è facile essere un proprietario terriero né un marito moderno e liberale in un paese come il suo. Nonostante le difficoltà e i contrasti, il loro amore e la dedizione ai figli, Aisha e Selim, prevalgono anche quando, con l’esplodere della lotta per l’indipendenza del Marocco, la Storia torna a bussare alla loro porta. Leila Slimani ci regala un romanzo dall’intreccio magistrale, illuminato dalla forza e dalla profondità delle sue protagoniste femminili. Perché tutti, in questa storia, vivono nel “paese degli altri”. Ci vivono i coloni francesi ospiti indesiderati dei marocchini che, a loro volta, sopportano a fatica il giogo degli europei. Ci vivono i soldati, costretti ad operare in un territorio ostile, così come i contadini che lavorano una terra che non appartiene a loro. Ma sono soprattutto le donne, costrette a vivere nel paese degli uomini, a dover lottare per la loro emancipazione.

Durante la Seconda Guerra Mondiale , la giovane e giunonica alsaziana Mathilde, dagli occhi verdi e dall’altezza considerevole, si innamora di Amin, un soldato marocchino che combatte con i francesi contro i nazisti; il loro amore li spinge a un matrimonio veloce e al trasferimento di Mathilde a Meknes in Marocco: qui Amin ha ereditato una terra, cui ha pensato per il lungo tempo della guerra, un sogno, quello di trasformarla in una zona coltivabile, in una casa, in un segno del proprio passaggio nel mondo, un’eredità da lasciare e una continuità con la propria famiglia. Entrambi affascinati dalle proprie diversità, così interessanti in terra francese, si renderanno conto che saranno proprio quelle differenze culturali, profondamente radicate in loro, a diventare degli ostacoli in Marocco. Mathilde deve abituarsi ad un mondo in cui la legge che vige è quella dell’uomo: la donna tace, la donna evita persino di affacciarsi alla finestra, come sua suocera, la donna non ha contatti con il mondo esterno, e ha un ridottissimo numero di cose sulle quali può esprimersi. Ma lei non è avvezza a farsi piegare facilmente e ce la mette tutta per cercare di essere se stessa anche in quel paese sconosciuto e così diverso dal proprio, a partire dalle case, dalla promiscuità degli ambienti, dagli animali, dagli insetti, dal caldo soffocante e dai rituali precisi e rigidi. Tutto – e tutti – sembrano dirle quanto la sua pelle candida, la sua altezza, siano fuori luogo, quanto la sua voglia di essere compagna, alleata, complice del marito, e non sottomessa, sia un insulto al mondo in cui vive. Mathilde è prostrata, dal clima, dalle norme, dall’atteggiamento di Amin, frustrato perché la tenuta si rivela complessa da gestire, economicamente e non, e riversa sulla moglie le sue rabbie e le sue angosce, punendola, verbalmente e fisicamente, per quegli atteggiamenti che invece rendono Mathilde se stessa. E’ un pugno di ferro su tutto, oscillazione perenne tra rassegnazione e voglia di scardinare gli schemi, tratto che accomuna i due sposi, sebbene Amin fatichi a riconoscerselo: nonostante sia stato un eroe di guerra, si chiama fuori, metaforicamente e non, dalla vita politica marocchina, decidendo di vivere nella tenuta sulla collina, un luogo selvaggio e distante dalla città, brulicante di francesi, di coloni, tutti carichi di odio reciproco.

E’ un paese degli altri, come evoca il titolo, ma chi sono questi altri? I coloni? Gli arabi stessi? La questione dell’indipendenza è un focolaio che aspetta solo una miccia per esplodere, in quelli che sono gli anni del dopoguerra, difficili ovunque. Lo sguardo dell’autrice indaga l’evoluzione e la crescita della famiglia di Amin e Mathilde in un mondo difficile e lo fa incentrandosi su alcune delle voci femminili, principalmente Mathilde stessa e Aisha, la figlia maggiore di sette anni. Mathilde insiste per iscriverla ad una scuola cattolica di città, in cui la figlia prima non vuole andare, perché si sente, e la fanno sentire, diversa, sporca, povera, arretrata, poi Aisha trova una fede cattolica quasi mistica ed emerge come prima della classe. Tuttavia, il suo aspetto fisico, nato dal connubio di due etnie, diviene motivo di scherno, quel cespuglio ingestibile di capelli crespi e biondastri, che nemmeno la nonna paterna sa sistemare, sono un cruccio per lei. La vergogna e il giudizio degli altri sono alcune delle tematiche che madre e figlia devono affrontare: il mondo, la famiglia, le vorrebbe diverse da come sono. Eppure, Aisha e Mathilde sono affamate di vita, sono curiose, si riempiono gli occhi di piccole e quotidiane meraviglie, e affrontano la vita, che passa, che cresce come un’onda, e poi si ritrae. E’ un viaggio incredibile, quello che l’autrice ci permette di compiere, in una cultura, in un luogo, in una famiglia e più ancora nell’intimità di questi personaggi, così reali nelle loro fragilità, così dirompenti nelle loro gioie, e così devastanti nelle loro paure e tristezze. Voci riconoscibili e in cui riconoscersi, quindi.

I rapporti umani, sociali e famigliari, la tensione di una guerra finita e di una più contingente e intestina, l’onore, la fede e la superstizione, la voglia di sentirsi liberi e la paura di cosa significhi esserlo davvero: tanti sono gli aspetti su cui riflettere in una storia narrata con uno stile poetico e coinvolgente. Le scene, le sensazioni, gli odori, le emozioni sono talmente vivide da sembrare reali, come i personaggi che l’autrice mette in scena, intensi nelle loro fragilità, nella loro accurata e dettagliata descrizione ed evoluzione caratteriale. Le vicende di una famiglia multiculturale in un’epoca difficile, tesi tra l’amore che spesso non riescono ad esprimere, per via di una cultura di appartenenza rigida e poco incline alle manifestazioni d’affetto, e il sentire di dover comunque rendere conto a quelle regole, a quel mondo in cui le cose sono sempre state in un certo modo e continueranno ad esserlo. Una storia emozionante, carica di momenti toccanti, di violenza, di speranza, di vitalità, che tocca ancora di più perché in parte autobiografica, questo primo volume di una trilogia è un inno alla resilienza.

Pensò che il mondo degli uomini funzionava come la botanica. Alla fine, una specie prendeva il sopravvento sull’altra e un giorno l’arancio avrebbe avuto ragione del limone o viceversa e l’albero avrebbe finalmente prodotto dei frutti commestibili.

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