Il miglio verde

Il miglio verde

Buongiorno, lettori! Oggi vi parlo del romanzo Il miglio verde, scritto da Stephen King (traduzione di Tullio Dobner) ed edito da Sperling e Kupfer.

TRAMA

Nel penitenziario di Cold Mountain, lungo lo stretto corridoio di celle noto come Il Miglio Verde, i detenuti come lo psicopatico Billy the Kid Wharton o il demoniaco Eduard Delacroix aspettano di morire sulla sedia elettrica, sorvegliati a vista dalle guardie. Ma nessuno riesce a decifrare l’enigmatico sguardo di John Coffey, un nero gigantesco condannato a morte per aver violentato e ucciso due bambine. Coffey è un mostro dalle sembianze umane o un essere in qualche modo diverso da tutti gli altri? Un autentico capolavoro firmato Stephen King e dal quale è stato tratto lo straordinario film di Frank Darabont con Tom Hanks.

All’inizio di ogni gennaio, da qualche anno a questa parte, il mio proposito per i 365 giorni a venire è: provare ad approcciarmi allo stile di Stephen King. Complice un’amica che ama l’autore, ho deciso che finalmente è arrivato il momento di mettere in pratica questo proposito:su suo suggerimento ho comprato alcuni titoli e ho iniziato a leggere proprio Il miglio verde.

La storia mi era nota a grandi linee, ma questo non ha affatto inficiato la mia esperienza di lettura; sapevo che mi sarei emozionata, ma non credevo così tanto. Il romanzo è stato pubblicato, inizialmente, a puntate, prendendo spunto dalla modalità già attuata con successo da Dickens; per fortuna, successivamente, è stato pubblicato per intero. Non avrei mai resistito senza sapere come la storia va avanti.

Paul Edgecombe è stato il capo guardia del penitenziario di Cold Mountain, e ci racconta la sua storia quando ormai è anziano, chiuso in una casa di riposo e ripensa a quegli anni, al suo mestiere, decidendo di scrivere una sorta di diario dell’epoca. Ha visto compiersi tante esecuzioni su quella che veniva chiamata Old Sparky, la sedia elettrica, quel trono spavaldo, quasi beffardo, dinanzi al quale la vita di criminali trovava la propria fine; eppure, Paul, ha un rimorso, un ricordo lontano nel tempo, e che si chiama John Coffey ( come la bevanda, ma scritto in modo diverso). Inizia così un racconto vivido, talmente intenso che mi è parso di essere lì, di percepire l’odore delle celle e del ricovero per anziani, di sentire le voci, che l’autore ha reso in maniera così precisa e appurata da sembrare reali, ho avuto la sensazione di provare ,come Paul e gli altri, quei brividi, quella sacralità dei gesti, quelle paure e quelle angosce. In poche parole, ho sentito tutto. Certo, proprio questa sua caratteristica di descrivere ogni singola azione nei dettagli, ogni pensiero ed emozione, mi fa pensare di non essere ancora pronta per i suoi horror, ma ne Il miglio verde mi ha rapita.

Fragili come vetro soffiato, siamo noi, anche nelle condizioni migliori.

Paul e i secondini, pur consapevoli degli atti tremendi di cui i criminali si sono macchiati, cercano di condurli attraverso una “buona” morte, che sia quantomeno umana; cercano di lasciare fuori dalla stanza, dal penitenziario stesso, le loro emozioni, ma non sempre vi riescono, e il caso di Coffey e di Delacroix ne è testimonianza. Pagina dopo pagina, i personaggi emergono dalla carta, si incarnano, diventano una compagnia conosciuta: ognuno con la propria caratterizzazione, impariamo ad anticiparne mosse e pensieri. Ci sono tensioni tra loro, c’è la cattiveria arrogante e saccente di Percy, un personaggio scomodo e francamente malvagio; ci sono dilemmi etici e morali, cui certo Paul non si arroga il diritto di rispondere o di risolverli, ma almeno li affronta, li vive e li percepisce. E poi ci sono i criminali. Quelle ultime settimane di vita da trascorrere in carcere, prima di pagare definitivamente il proprio conto, con le vittime, con lo Stato, con un qualche Dio, con se stessi. Come Paul, anche io leggevo consapevole di star osservando omicidi e assassini, eppure, c’erano momenti in cui la vulnerabilità di Coffey e Delacroix sembrava mettere in dubbio tutto quanto.

Coffey, un omone di due metri, completamente calvo, incapace di ricordarsi cose accadute al mattino, con gli occhi sereni e la pelle nera; lui, che sembrerebbe così ingenuo, così “buono”, come può aver violentato e ucciso due gemelline, due bambine? Se lo chiede Paul quando lo accompagna in cella, e si rende conto di avere di fronte un essere umano singolare. La verità delle sue azioni, il suo dono, non potranno tuttavia cambiare la sua sorte. Il pregiudizio è troppo radicato: è stato lui. E come potrebbe essere altrimenti? Le sue braccia enormi tenevano le due gemelle come bambole rotte e la sua voce come un lamento continuava a ripetere che era troppo tardi per poter rimediare. Chi è davvero Coffey? Che cosa può fare? Paul è il primo a sperimentare il dono dell’uomo, e poi il piccolo, geniale, Signor Jingles, e, infine, l’idea folle di Paul. Ogni parola, ogni scena, si incastra alla perfezione dando forma a un mosaico ipnotizzante: staccarsi dalle pagine è impossibile, anche quando fa male, anche quando si vorrebbe distogliere lo sguardo, la penna precisa di King costringe a tenere lo sguardo puntato su ciò che vuole mostrare al lettore. Come una lama, viviseziona i sentimenti, non nasconde nulla, nel bene e nel male. King è uno spettacolo a cui il lettore vuole assistere, suo malgrado.

Il tempo si prende tutto, che tu lo voglia o no. Il tempo si prende tutto, il tempo lo porta via, e alla fine c’è solo oscurità. Talvolta incontriamo altri in quell’oscurità e talvolta li perdiamo di nuovo là dentro.

Nelle pagine finali, intense, strazianti, laceranti, assistiamo a un’inversione di ruoli pazzesca: John deve consolare e rassicurare gli altri, andrà tutto bene. Il carico sulle sue poderose spalle è troppo faticoso, troppo doloroso: quanto dolore, quanta bruttura c’è nel mondo. Nemmeno il gigante, il ragazzone, può sopportarlo oltre.

Le riflessioni che ha comportato la lettura di questo romanzo sono state tantissime: dall’odio, dal razzismo, all’umanità, al miracolo, all’eterna lotta tra bene e male. Una storia che continuerà a restare nella mia mente per molto tempo: la mia iniziazione è ufficialmente conclusa.

Non ne posso più del dolore che sento e che vedo, capo. Non ne posso più di vivere in strada, solo come un pettirosso sotto la pioggia. Mai un amico da andarci assieme, un amico che mi dice da dove veniamo e dove stiamo andando e perché. Non ne posso più della gente cattiva che si fa del male.Per me è come cocci di vetro piantati nella testa. Non ne posso più di tutte le volte che ho voluto rimediare e non ho potuto. Non ne posso più di stare al buio.

Dolorosamente realistica, una storia che è il racconto di una vita, ed essendo tale tocca altre vite, si incrocia con loro, ne viene accarezzata, scossa, squassata, deliziosamente stuzzicata. Il finale rappresenta un cerchio perfetto, un epilogo che non può essere raccontato se non con le parole di Paul.

Tutti noi dobbiamo morire, non ci sono eccezioni, lo so, ma certe volte, oddio, il Miglio Verde è così lungo.

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