Diario di clandestinità e altri scritti in tempo di guerra (1943-1945)

Diario di clandestinità e altri scritti in tempo di guerra (1943-1945)

Buongiorno, lettori! Oggi vi parlo di Diario di clandestinità e altri scritti in tempo di guerra (1943-1945) di Antonio Barolini, a cura di Susanna Barolini e Teodolinda Barolini, edito da Neri Pozza Editore, che ringrazio per l’invio della copia.

TRAMA

Il 25 luglio 1943, quando cade il regime mussoliniano, Antonio Barolini è una delle figure di rilievo nella cerchia degli antifascisti vicentini. Ha già pubblicato tre raccolte di poesie nelle edizioni dell’Asino Volante e del Pellicano, le prime avventure editoriali dell’amico Neri Pozza, e la sua notorietà è tale da avergli procurato la stima e l’amicizia di intellettuali quali Aldo Capitini, il fondatore del Movimento Nonviolento in Italia, Carlo Ludovico Ragghianti, Giorgio Bassani. Naturale, dunque, che quando la «Vedetta fascista», il quotidiano locale, diventa «Il Giornale di Vicenza», scoprendo, come numerosi organi di stampa periferici, la libertà d’espressione, Barolini venga chiamato a dirigerlo. La sua direzione dura quarantacinque giorni, i giorni del governo Badoglio. Con la neonata Repubblica di Salò, protetta dai nazisti, «Il Giornale di Vicenza» si trasforma nel «Popolo vicentino» e Antonio Barolini, finito sotto processo, viene condannato a quindici anni di reclusione dal Tribunale speciale fascista per gli articoli scritti sul foglio «badogliano». Le pagine qui raccolte e curate dalle figlie di Barolini, costituiscono il diario di quegli anni; un diario di clandestinità, poiché, per sfuggire alla cattura, Barolini si rifugia a Venezia, dove vive segregato dai partigiani in otto diverse case fino al 29 aprile 1945, giorno della liberazione della Serenissima. Sono pagine che narrano di un’avventura clandestina «drammatica e ricca d’umanità», come ebbe a definirla Neri Pozza, e che costituiscono, insieme, come scrive nell’introduzione Teodolinda Barolini, una «meditazione filosofica e religiosa che indaga le modalità dell’eroismo e i parametri di una vita morale in tempi di guerra». A distanza di tanti anni dagli eventi narrati, sorprende l’attualità del conflitto morale che le alimenta: il conflitto di un uomo che si scopre pacifista in tempo di guerra e cerca incessantemente la via giusta per opporsi al male e alla barbarie.

E’ una fantasmagoria, tutti sono pazzi di gioia. E’ la mattina del 26 luglio 1943, la mattina del giorno dopo la morte di Mussolini. Così si apre il Quaderno VI di Antonio Barolini che da lì a due giorni assumerà la direzione de Il Giornale di Vicenza, sebbene, come dice lui stesso, ne rifiuterà il titolo e lo stipendio da Direttore. Il testo, curato da Susanna e Teodolinda Barolini, riporta alcuni dei Quaderni e degli editoriali, scritti da Barolini nei quarantacinque giorni in cui sarà, appunto, Direttore de Il Giornale di Vicenza. Sono editoriali, alcuni, che ci arrivano tagliati dalla censura, mentre i diari sono spesso stati di difficile comprensione per via della grafia e dei segni grafici adottati dal Barolini stesso. Quello che ne emerge è il ritratto di un uomo e di una nazione, in un tempo difficilissimo come quello degli tra il 1943 ed il 1945. L’introduzione, da leggere per avere una cornice storica ma soprattutto personale di Barolini, parla di un uomo che ha dovuto nascondersi, clandestino, un uomo che si è sempre dovuto confrontare, negli anni successivi, con il suo personale fantasma della viltà: in un momento che ha fatto della lotta e dell’azione lo strumento elitario con cui contrapporsi al regime, Barolini si sente mancante perché è scappato, è fuggito, ha scelto di non tornare. Nei suoi numerosi scritti, più o meno autobiografici, parlerà sempre di quei personaggi, di quelle figure storiche che definisce “migliori“, ma la sua spiritualità, il suo fervore non- violento gli hanno reso impossibile fare diversamente. E’ una delle dicotomie che emergono dall’analisi sulla figura personale di Barolini, quella di ritenersi attivo ma non violento, non settario: “Non eroicamente ma militavo nelle file dell’antifascismo dal 1937”, dice nella sua Cronistoria, a testimoniare questo suo dilemma personale. Nei suoi editoriali, Barolini parla dell’euforia di essere finalmente liberi, e del necessario lavoro che c’è da fare per mantenere questa “riconquistata” libertà, per affrontare le nuove sfide che si stanno preparando e per non dimenticare mai quanto è costata all’Italia questo suo status. Ho trovato di una modernità disarmante questa sua frase:

… la libertà non è licenza, ma conquista du ogni momento, m vita morale, opera che si traduce in un ordine e in una disciplina, che trova il proprio impulso nella stessa coscienza degli individui. Ricordiamo che ogni licenza è già difetto di libertà, è già un limitarne la propria azione, è già la causa determinante di una reazione opposta, i cui effetti non possono essere se non quelli deleteri che il recente passato c’insegna a considerare (Il Giornale di Vicenza, 31 luglio 1943).

C’è voglia di guardare avanti, di avere speranza, nelle parole degli editoriali, c’è voglia di risanare, di rimboccarsi le maniche ma al tempo stesso c’è il freno dato dagli eventi che si stanno ancora svolgendo, dall’assetto politico che si sta definendo; le notizie che arrivano spesso sono contraddittorie e vi è uno scollamento tra il sentirsi liberati, sgravati dall’ansia del regime, ed essere di fatto liberi, anche solo di guardare avanti. Nelle parole di Barolini si percepisce tutto il suo sentire spirituale, inteso come dice lui stesso, non come “confessionale” ma come “morale“: l’urgenza quindi di recuperare una moralità che non potrà mai cancellare gli anni passati ma potrà almeno essere di monito. Lo spettro della guerra è lontano dall’essersi dissolto: “ancora tocca all’Italia e al popolo il duro travaglio della sofferenza“, le forze germaniche stanno invadendo le città italiane, bisogna resistere.

Le pagine del diario, dialoghi interiori, flusso di coscienza, parole serrate su carta a rimarcare un’urgenza di dire, di ricordare, i fogli inseriti, gli elenchi di libri di leggere, segnati a mano, raccontano una vita che cerca di proliferare anche tra le avversità più nere, che Barolini considera appartenergli sin dalla tenera età; orfano di padre, con una sorella malata, e il fardello di una vita mai agiata, Barolini lascia i suoi studi e si definisce uno “spostato“, uno che si è dovuto guadagnare e conquistare ogni cosa.

E’ l’agosto del 1944 quando si apre l’ VII Quaderno: Barolini è nascosto, ha paura di morire, ha paura della vita a cui è costretto e che ha fatto riemergere un cattolicesimo che lui vede come vile, come un escamotage per l’anima, per non accettare da solo il fardello della morte che potrebbe attenderlo; e paradossalmente, la paura della morte si accompagna a una celebrazione estatica della sensualità che riscopre in questo periodo, in una dualità insita nella vita umana, tra luce ed ombra, eros e thanatos.

Scrivere diventa un modo per stare con se stesso ma al contempo, Barolini si chiede perché non possa sentirsi libero di scrivere tutto ciò che vuol dirsi: possibile che dobbiamo sempre essere perseguitati e che non torni il sereno? Mancanza e nostalgia, tentativi di riempire le giornate in modo costruttivo imparando la briscola ad esempio, ma la contingenza della situazione politica è cosa viva che non abbandona mai i suoi pensieri. Il diario è scavo di autoanalisi, è viaggio, memoria interiore: brevi frasi, quasi sentenze, o lunghi monologhi, riflessioni sul sesso, sulla religione e sulla preghiera, sui libri letti e su citazioni , aneddoti e ricordi, che condensati delineano la biografia di un uomo terribilmente umano, con le sue fragilità e le sue sfumature. Tenero e commovente, ho segnato un passaggio che mi ha toccato molto:

E’ ormai sera e mi ha tranquillato molto questo scrivere, questo dire me stesso, questo vedermi. Ho paura degli uomini, dell’avvenire, non della vita, ma della morte che l’avvenire e gli uomini serbano in sé, di questa incertezza. E la sera al solito mi commuove, leggermente così velato com’è il cielo caldo, sovra una selva di comignoli grigi bianchi e di tetti rossi affumicati.

Pagine che parlano di spiritualità, di egoismo, di fede, di futuro, di filosofia ed economia; di progetti e di opere da scrivere e dell’inesauribile gratitudine al Signore per la vita. Barolini, nascosto, è grato, sempre, e chiede di poter vedere ancora i suoi cari, crede in un futuro diverso; si interroga sul valore del libero arbitrio, della presenza del divino nelle trame della storia, proprio in quei momenti più bui in cui se ne potrebbe ravvisare la mancanza, ecco che Barolini riflette e dice che è proprio lì che Dio esiste, con il libero arbitrio. Il tema della fede e della moralità è sempre presente nelle sue annotazioni che alternano momenti di autentico sconforto, dissertazioni culturali ed economiche chiare e moderne, e momenti cupi, di svilimento e devastazione emotiva. Barolini scrive, in quegli anni e a queste due attività dedica la stessa dualità che mette in tutto il resto, talvolta esaltando il proprio lavoro, talvolta chiedendosene il senso. Legge e commenta l’opera altrui, manifestando un interesse sempre acceso e uno spirito critico con il quale affronta le grandi tematiche della storia, della politica e della letteratura.

I suoi editoriali, ritenuti dal Tribunale fascista attività di propaganda antifascista, costarono a Barolini la condanna a quindici anni di prigione.

Il suo sguardo e la sua parola sono rappresentativi del suo mondo interno, delle sue complessità e dei suoi dubbi, della sua tensione interiore che lo ha sempre definito.

E non è né pianto, né abbandono, né dolcezza, è amore intimo di cose, di esistenze, di futuro.

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